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Oppenheim il Pontefice


di Giuliana Mazzola

“Stile” intervista Dennis Oppenheim, negli anni ’60 e ’70 tra i primi artisti concettuali, uno dei fondatori della Land Art e protagonista della Body Art.

x_16Potrebbe parlarci del suo percorso artistico a partire dai suoi studi fino agli ultimi anni?
Questa mostra presenta opere di molti anni fa, degli anni ’60 e ’70, e le opere di quegli anni erano principalmente concettuali. L’arte concettuale uniformava le modalità espressive di quel periodo. Oggi il concettuale fa parte del “classico” come caposaldo dell’arte contemporanea, al punto che può ancora influenzare i giovani artisti. I lavori in mostra attualmente a Milano alla Galleria Ierimonti sono, per scelta, tutti relativi a quel periodo. Sono state volutamente lasciate da parte le opere più recenti. Attualmente il mio lavoro va in altre direzioni. Negli anni ’60 molti giovani autori si sono impegnati in forme di arte radicale, in Italia con l’Arte povera, negli Usa con la Land art, facilmente sviluppatasi anche grazie ai grandi spazi del territorio americano, e con la Body art, in base alla quale, per la prima volta, gli artisti diventano perfomancer ed il video diviene un altro aspetto delle opere di carattere concettuale. Sono passate diverse generazioni di artisti concettuali, da allora; molti degli artisti della prima generazione sono già morti; molti artisti della nuova generazione vanno però un po’ troppo “sul pesante”, hanno seguito le influenze delle prime opere, ma il loro lavoro mi risulta oggi estraneo.


Pensa che i suoi lavori abbiano avuto qualche influenza in altri campi, come l’architettura o la filosofia?
Più che le mie opere, penso che sia l’insieme della produzione artistica di quel periodo ad aver avuto influenza, soprattutto sull’architettura. Se parli di Land art a qualche architetto ti risponderà: “Ah, sì, mi ricordo, quando ero giovane…”. Sì, perché fu eccitante, aggressiva, fu come un salto nel mistero. L’architettura mi interessa molto adesso, per diverse ragioni, e principalmente penso che, adesso più che vent’anni fa, l’artista sia anche architetto. Sto lavorando in questo campo, anche se è difficile seguire un intero progetto. Mentre prima, all’artista, si commissionavano le singole parti all’interno di un progetto, adesso risulta molto più interessante partecipare all’insieme di un’idea.

Sono rimasta colpita dalla sua dentiera fatta di libri. Prende in giro la cultura, l’arte tradizionale e, in fondo, anche lei stesso. Qual è veramente il suo rapporto con la tradizione artistica?
Gli artisti sono stati sempre coscienti della storia dell’arte, alcune volte ne sono stati condizionati. L’artista non vuole essere troppo controllato, comunque. Io credo che l’arte possa comprendere anche lo humour, rimanendo validissima. Per esempio, la Pop art all’inizio fu solo un divertimento, ma poi diventò un modello che influenzò tutto ciò che venne in seguito. Inteso in questo senso, anche l’umorismo può diventare una cosa molto seria ed importante.

Negli anni ’60 e ’70 le perfomance rappresentavano una rivoluzione contro il senso di perdurabilità e l’ossessione per l’eternità: oggi invece noi siamo nell’era dei satelliti e dei telefoni cellulari, dei computer e del mercato globale, della velocità insomma. Cosa potrebbe essere rivoluzionario ai nostri giorni?
Molte delle nuove tendenze, nell’arte come nella moda, sono influenzate dal primitivismo; si presentano opere od oggetti non sofisticati. L’arte si propone come primitiva rispetto alla tecnologia, pur transitando dall’uso dei video o dei computer. Nel 1969 sono venuto a Milano. In quel periodo nessun artista italiano aveva mostre a New York. Solo l’arte americana era considerata importante in tutto il mondo. Adesso è completamente diverso. L’arte è un fenomeno del tutto internazionale. Dall’Africa, dall’Asia soprattutto, si propongono ottimi artisti. L’arte non è più in mano agli Usa, è completamente globalizzata. Effettivamente la situazione è cambiata moltissimo.

Ho visto uno dei suoi lavori alla Fiera di Milano: qual è il suo rapporto con il mondo artistico italiano? 
Non conosco bene il mondo artistico italiano. Vivo a New York, e lì lavoro con alcune gallerie. Se si vive a New York – e si è artisti -, è strano, ma si frequentano poco i colleghi. Li si scopre nelle gallerie o nei musei, come il Moma, ma non fanno parte della cerchia di riferimento. Per quanto riguarda l’Italia, conosco il movimento dell’Arte povera, ma non conosco le nuove generazioni. Sono stato a tenere una lezione all’Accademia di Brera, ma non ho ancora avuto occasione di conoscere i giovani artisti. E’ più facile a volte conoscere gli artisti per gruppi generazionali, ed allora posso parlare di Mario Merz, di Kounellis, di Fabro; ma per quanto riguarda i giovani è diverso. Anche a New York gli artisti dovrebbero leggere i giornali d’arte, frequentare le mostre e gli eventi, ma quasi nessuno lo fa. Manca la curiosità artistica. Io ho visto qualche giovane interessante, ma purtroppo non ne ricordo i nomi. Ne ricordo solo il lavoro.