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Oscar Di Prata – Autobiografia, periodi e stile – Colloquio tra il pittore e Bernardelli Curuz


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In più occasioni, il pittore Oscar Di Prata e il critico Maurizio Bernardelli Curuz si incontrarono nello studio dell’artista con il fine di delineare un percorso cronologico-stilistico dipratiano.  I colloqui confluirono in più numeri della rivista Stile Arte, dei quali, senza soluzione di continuità, pubblichiamo qui i testi che permettono, nell’intreccio tra biografia e scelte stilistiche, di comprendere più profondamente l’arte di uno dei maggiori maestri bresciani del Novecento.

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Oscar Di Prata, colloquio con Maurizio Bernardelli Curuz

 

Le opere dal 1925 al 1940

“Ero un ragazzino versato per la pittura. Ho iniziato a otto, dieci anni. I miei genitori hanno capito quanto l’arte fosse importante per me. Mi hanno iscritto alle scuole serali d’arte. Quando avevo quindici anni, la mamma è riuscita a regalarmi, con grande sacrificio, un cavalletto traballante. Io aprivo la finestra della stanza e un uccellino, al quale quotidianamente offrivamo briciole sul davanzale, balzava sul cavalletto, poi mi saltava sulla spalla e sulla testa. Non ricordo esattamente i miei primi soggetti. Mi sembra che fossero piccoli paesaggi. Una casa, un sentiero, una santella, qualcosa che, già allora, aveva la dimensione di una fuga dall’obbligo del vero. Ecco, sentivo la necessità di trasfigurare la materia. Non ho mai copiato alcun quadro, nemmeno per imparare. Ho sempre tenuto alla mia libertà espressiva. I supporti di quell’epoca erano soprattutto cartoni, perché le tele costavano troppo. Qualche volta, però, riuscivo a rubare in casa un asciugamano. Allora lo tiravo su un telaio e potevo provare il piacere di dipingere sul mio supporto preferito. Successivamente la mamma mi ha mandato a fare il piccolo da Trainini. Lì ho imparato molto, sotto il profilo della tecnica dell’affresco. Ho iniziato mescolando i colori, ma la passione era tale che arrivavo nella chiesa prima che gli altri fossero svegli. Preparavo la malta, la stendevo e dipingevo. Ho collaborato anche con Cresseri, ma a Trainini devo la conferma della pittura come ricerca della libertà. Le sue linee rapide, la sua capacità di non restare minuziosamente sul dettaglio insignificante mi hanno spinto a cercare sempre più dentro me stesso, anche attraverso la fluidità dell’azione pittorica. Negli anni della formazione ho guardato molto all’arte classica e, nel contemporaneo, a Carrà, Sironi, De Chirico, Matisse e Picasso. Questi artisti confermavano che era possibile aprire strade nuove e che queste strade erano infinite. Mi dicevano che non è necessario pagare tributi a un modo uniforme di raccontare la realtà. Non mi sono però mai appropriato di nulla che appartenesse a quei grandi, anche se certamente ho respirato quelle atmosfere. Più che il cubismo, ho amato il futurismo che, al di là della scomposizione del mondo, puntava all’accelerazione delle linee. Ma da subito, senza pormi domande sullo stile che avrei dovuto assumere, ho privilegiato la fantasia rispetto alla rappresentazione fotografica della realtà”.

I tuoi primi lavori, in particolar modo, sono piuttosto diversi sotto il profilo stilistico. Nei ritratti si avverte l’influsso di Novecento, con la tipica, domestica statuarietà dei soggetti, in quella quotidiana atmosfera metafisica dei primitivi italiani. Si legge poi lo sguardo intenso e innamorato che rivolgevi nei confronti della classicità. Poi, nel 1933, l’entrata in campo di figure espressioniste, drammatiche, che rappresentano il filone che avresti percorso con maggior frequenza per tutta la vita. Poi, ancora, paesaggi che risentono del cubismo.

Non ero alla ricerca di uno stile. Non è stata mai una mia preoccupazione cercare un linguaggio e fissare un percorso. Nella mia vita artistica esistono sempre un’andata e un ritorno di soggetti e linguaggi.

 

Nei quadri del 1935-1936 le figure coprono totalmente i dipinti, li affollano, li riempiono di colori antinaturalistici. L’effetto delle prime opere più totalmente tue ricordano la luce che filtra attraverso le vetrate decorate delle chiese.

Sì, ho sempre amato moltissimo le vetrate perché il vetro è la gioia, la vibrazione. La luce che penetra attraverso il materiale colorato e trasparente induce contemplazione. Successivamente sono anche stato in Francia, Paese che, con il Gotico, ha rifondato questa tecnica, per imparare a realizzarle. Ma vedi? Anche in questo “San Sebastiano” del 1936 (l’artista aveva 26 anni, ndr) che sembra promanare la luce di una vetrata, la fantasia e la trasfigurazione della realtà, la ricerca di miei equilibri compositivi sono centrali. Non mi interessava molto il giudizio degli altri, non perché fossi pieno di me stesso, ma in quanto ritenevo che ognuno debba parlare il proprio linguaggio. La gente rideva. Le opere suscitavano scandalo. E naturalmente anche il mercato, nei miei confronti, era totalmente disinteressato.

Parliamo dei paesaggi. Sappiamo che, all’interno della tua produzione, sono numericamente molto limitati e molto ricercati.

Se parliamo di paesaggi veri, il numero è davvero esiguo. Non era la realtà a catturarmi, ma l’atmosfera fantastica che leggevo nella natura. Ricordo che andavo a dipingere en plein air con il pittore Rizzi. Per lui l’aderenza del quadro alla realtà era indispensabile. Rizzi voleva che mi mettessi a dipingere davanti a lui. Osservava la mia tela e rimaneva attonito, quando io stravolgevo il paesaggio. C’era una roccia che mi piaceva, ma che era molto distante? Io la spostavo nel campo visivo. Partivo dalla verità, ma la componevo con fantasia. Per lui tutto ciò era sconcertante.

Nel 1938 hai presentato il dipinto Paese, che è stato accettato alla Quadriennale di Roma. E questo è un paesaggio bucolico.

Sono stato felice per ciò che è accaduto in quei giorni. Accanto al mio quadro c’era un dipinto di Carrà. Il maestro mi ha fatto un sacco di complimenti per il mio Paese. “Lei è un pittore autentico” mi ha detto. Poi ha scritto di me su un giornale di Milano.

Un paesaggio straordinario è una Venezia che tu hai prodotto nel 1940.

Una Venezia che potevo dipingere a occhi chiusi, suscitandola, dentro di me. Sono stato a Venezia, a studiare, all’Istituto d’arte di Stato. Erano anni di grande povertà. Mi ospitava un amico. Qualche volta mangiavo a casa sua; altre volte, con un pezzo di pane, giravo per la città, osservandola. Sentivo di provare un po’ di vergogna perché Venezia mi guardava con le sue bellezze e mi sembrava di insultarla, mangiando per le calli.

Dalla violenza – che sin dagli esordi hai documentato – alla spiritualità. Invocazione, questo quadro del periodo giovanile (siamo nel 1940), denota un registro totalmente nuovo, che poi troveremo perdurante nei tuoi quadri d’argomento religioso o d’esplorazione spirituale.

Queste sono le mie sorelle. Di fronte alla scena della preghiera delle mie sorelle, nella sacralità dell’ambiente familiare, non poteva che uscire una pittura ricca di dolcezza. Dicevo appunto che non ho scelto un segno preciso da utilizzare in tutti i casi. Una fucilazione ha una vibrazione e un tono cromatico che la contraddistingue. La contemplazione ha invece un registro che sta nelle cose e che influenza il modo di dipingerle. Per capire questo mio atteggiamento, che mi ha seguito sin dagli esordi, basta guardare Braccianti, del 1939. Siamo nello stesso periodo, eppure i quadri sembrerebbero appartenere a epoche diverse.

 

Le opere dal 1941 al 1945

 Le tappe fondamentali della vita del pittore nel periodo a cavallo degli anni quaranta sono le seguenti: nel 1938 inizia l’insegnamento artistico presso l’Istituto di Stato, agli inizi del 1941, richiamato alle armi, dopo un periodo di addestramento è comandato in Africa settentrionale, dove partecipa a operazioni di guerra. Nel deserto africano realizza numerosi dipinti, in minima parte conservati e portati in Italia al suo rientro, in buona parte perduti, ispirati all’ambiente e al conflitto. Fatto prigioniero nel Natale del 1941, è dapprima internato in campi di prigionia in Egitto, quindi inviato in India, dove trascorre, tra i reticolati, circa quattro anni.

I quadri di Oscar Di Prata eseguiti nel deserto sirtico durante la seconda guerra mondiale e nel campo di prigionia in India hanno un valore storico ed economico particolarmente elevato, dovuto a una circolazione molto limitata – se non rarissima – sul mercato. Lo stesso artista ha cercato di riacquistarli presso i propri collezionisti, ma non è mai riuscito nell’impresa. Si può calcolare che il numero delle opere di quel periodo, presenti in diverse collezioni, sia tra i cinquanta e gli ottanta pezzi.

 

Dipingere in guerra…

“Sono partito per la guerra come tenente – Lo stipendio mi permetteva di mantenere mia madre. Ho portato con me fogli di carta e colori a olio perché non ero intenzionato a interrompere per lungo tempo la mia attività espressiva. Fortunatamente, il colonnello ha preso di buon grado questa mia stranezza, mentre il capitano non era particolarmente contento che si esercitasse l’attività artistica nelle zone di guerra e spesso presentava rimostranze al suo superiore La guerra mi ha mutato profondamente, anche sotto il profilo artistico. La pittura, per motivi contingenti e per la necessità di arrivare all’osso della realtà, diventava più rapida, l’approccio alla carta gestuale, mentre entravano in me, profondamente, la cognizione del dolore e della bontà, e quei valori che, in precedenza, avvertivo con forza come linee-guida, ma che risultavano esterni alla mia persona.

 

Quali sono i soggetti più ricorrenti delle opere dipinte durante la guerra?

Raccontano, sinteticamente, il deserto, l’intreccio indissolubile tra la vita e la morte che, in quei luoghi e in quei tempi, era molto stretto. Guardavo con ammirazione quella piana mortale sulla quale fiorivano, comunque, indizi di vita. Nel mio studio conservo il dipinto di un bucranio. Il resto osseo del bovide mi scrutava dalla sabbia. Chiedeva di essere rappresentato. Io l’ho preso, rappresentato, portato con me”.

 

I dipinti del deserto sirtico sono stati realizzati su supporto cartaceo?

Sì, olio su carta. I dipinti su tela che raffigurano i deserti appartengono al periodo successivo, quando, dopo il rientro, mi sono trovato a rimeditare su quel paesaggio di rovine, che mi è rimasto dentro per la sua atmosfera intensamente metafisica.

 

Di diverso tenore sono i tuoi quadri indiani. La natura sovrana, osservata dal campo di prigionia, ti ha ammaliato… Come sei stato catturato?

Occupavamo un fortino. Gli inglesi ci attaccarono durante il giorno. Fu una battaglia durissima. Nel pomeriggio smobilitarono e scomparvero dall’orizzonte. Durante la notte entrarono segretamente nel fortilizio. Alle prime luci dell’alba ho visto che sul pennone del fortilizio era stata posta la bandiera inglese. Era finita.

 

Quindi passiamo all’India. Nel campo di prigionia tu continuasti a dipingere.

In India trovai anche le tele. Agli ufficiali, gli inglesi davano un po’ di soldi, e io li spendevo per acquistare tele. Ho amato moltissimo i dipinti di quel periodo. Avevo di fronte a me una natura rigogliosa, variopinta, ricca d’acqua, di clorofilla e di colori, agli antipodi del mondo desertico che mi aveva riempito gli occhi e il cuore durante la guerra. Ho dipinto almeno 50-60 quadri, in India. Anche in quel caso non avevo una premeditazione di stile. Affrontavo il paesaggio, un genere per me più piuttosto raro, con totale libertà espressiva. Quel che contava era raggiungere l’essenza, il cuore della natura attraversato da presenze umane.

 

Le battaglie e il potere

 

Nei tuoi quadri sei tornato più volte a raccontare il conflitto. La guerra. Esistono fucilazioni – che fanno pensare a Goya -, racconti di momenti crudeli, ma anche rappresentazioni di battaglie allegoriche o descrizioni dei volti arcigni del potere.

La guerra, come dicevo, mi ha cambiato profondamente. Non potevo restare insensibile di fronte a tutto ciò che di disumano vedevo attorno a me, e dell’umanità forte, sincera, che si manifestava all’improvviso, come forza di contrapposizione. Al tempo stesso il conflitto sviluppa un’energia sovrumana, che non può che entrarti dentro, cambiarti la vita, mutare il modo di percepire la realtà. Ho dipinto quadri con scene di violenza che mi stavano all’interno. Ho però lavorato molto anche con battaglie simboliche, quasi fossero eleganti parate. Ero attratto, in questo secondo caso, dall’idea del colore in movimento. I quadri di battaglia hanno risolto momenti in cui la mia ricerca stagnava. Hanno costituito insomma strumenti per una svolta indispensabile.

 

Anche per le battaglie non parti dal disegno?

Per me, e l’ho già detto, il disegno resta una forma espressiva autonoma. Non credo nella preparazione dell’approccio pittorico attraverso medium che non siano pittorici. La battaglia, per l’affollamento delle figure, per le diverse posture assunte da uomini e cavalli, è il campo sul quale si può lavorare con la massima scioltezza, sviluppando quella scrittura in corsivo che caratterizza ogni mia opera. Non lavoro su masse preordinate. Preparo la tela, stendendo campiture di acrilico, quindi intervengo con pennelli più sottili per estrarre le forme dei combattenti e dei cavalli.

In questo ambito tu citi spesso, come folgorazione visiva, i dipinti di Paolo Uccello, di Tintoretto e di Salvator Rosa.

Del primo mi colpisce la forza geometrica, che diviene scomposizione che preannuncia alla distanza il fenomeno cubista; degli altri due maestri la scioltezza.

Hai citato Tintoretto e non Tiziano. Per certi aspetti il tuo segno, così duttile, elettrico ed eccentrico, è vicino a quello di El Greco, il più “novecentesco” dei pittori antichi.

Certo, adoro El Greco. Quelle sue figure allungate, quella sua capacità di non aderire a uno schema preordinato. Durante il mio itinerario ho preferito osservare gli esempi di artisti che andavano per strade diverse, percorrendo i meandri della realtà, allontanandosi dalla via maestra, più che assumerne il linguaggio. E’ chiaro che qualche citazione, a livello inconscio, può uscire, nei dipinti, ma tutto deve essere filtrato, sedimentato. Tutto deve divenire linea autentica, individuale, vera voce dell’artista che parla agli altri uomini.

Per quanto tu ammetta di essere fortemente attratto dai dipinti di guerra, le opere, anche quelle più crude, portano lo spettatore a condividere un moto di profonda pietà.

Non sopporto la violenza, ad ogni livello. Ho un rispetto religioso dell’uomo. Non sopporto nemmeno la sopraffazione intellettuale. Ogni uomo ha diritto alla vita e alla libertà. Anche alla libertà di esprimersi senza che questo gli procuri svantaggi.

Esiste pure una violenza psicologica. Negli anni Settanta, quando gli artisti furono chiamati a confrontarsi con il forte conflitto sociale sviluppatosi in quel periodo, hai rappresentato anche arcivescovi arcigni, accanto a terribili dignitari.

Torniamo al discorso della sopraffazione. Il potere è in grado di sviluppare una violenza molto intensa, nascondendosi dietro ad insegne all’apparenza onorevoli. Ho raccontato ciò che di negativo può nascondersi sotto una divisa, senza per questo pensare che tutte le divise nascondano uomini riprovevoli. Nella vita ho imparato a distinguere, a non fermarmi alle apparenze.

Hai anche dipinto incidenti stradali, ti sei confrontato artisticamente con le stragi.

L’artista non può restare indifferente alla violenza. L’arte è un modo per entrare ed uscire dalla realtà, appropriandosi dei meccanismi più profondi del reale. Esistono situazioni nelle quali, anche artisticamente, è impossibile proclamare la propria estraneità o restare neutrali. Quando è scoppiata la bomba in piazza Loggia, partecipavo, in città, a una riunione di pittori. Ricordo che, nel momento in cui si è diffusa la notizia, sono uscito piangendo. E ho continuato a piangere perché era un dolore troppo grosso, un dramma immane che doveva coinvolgere un’intera città, una nazione, il mondo.

Parigi e le vedute urbane

 Partiamo da Parigi. Tu raggiungi – negli anni quaranta, dopo la prigionia in India – quella che era ancora la capitale del moderno negli anni Quaranta. Parigi è una provocazione, per te, per un “anarchico dell’anima” che mal sopporta ogni coercizione, anche stilistica. Parigi è incombente e terribile. Troppo esplorata.

Il confronto con Parigi era stimolante. La città è stata per decenni e decenni un punto di riferimento nell’ambito del confronto tra diversi linguaggi artistici. M’interessava comunque la città in sé, la sua anima urbana. A Parigi non c’era più aria impressionista, anche se qualcuno continuava ad avere la tentazione di pensarla in quella visione trasognata, tipica della pittura di fine Ottocento. Raggiungevo la capitale con Consadori, proprio perché volevo capire in che modo mi fosse possibile raccontarla e per vedere le diverse vibrazioni del linguaggio dell’amico e collega. Raccontare qualcosa di già raccontato da migliaia di pittori. secondo una chiave autentica. La sfida era proprio questa: cogliere l’autenticità al di là di uno stereotipo che pareva obbligato. Individuare l’anima urbana, senza assumere un linguaggio parigino.

Ne esce una città geometrica, un luogo minore, vicino a certe contenute vibrazioni del minimalismo di Utrillo si avverte una spinta verso una declinazione astratto-cubista dei volumi.

Sì. Sono tornato diverse volte in quella città. Ne ho dipinto il luoghi consacrati dall’iconografia, colti comunque da un altro punto di vista, le strade anonime, le periferie. Ero anche interessato al contrasto creato tra le insegne della ville lumière, dai cartelloni, da un fitto apparato cromatico, con il colore grigio di quelle case. Ero scarsamente interessato, come Utrillo, alla Parigi magniloquente. Anche Amsterdam ha avuto importanza nel mio percorso pittorico di veduta e di paesaggio.

Eri comunque più vicino a un’idea consolidatamente moderna di veduta urbana. Poi, verso la fine degli anni Quaranta, con il racconto delle città di notte entri più decisamente in quello che è il mondo che più ti appartiene, dominato da una visione trasfigurata e mitica della realtà. Attorno alla metà degli anni Cinquanta i condomini della periferia parigina, appaiono costruiti come moduli aniconici, che compongono, nell’insieme, un quadro figurativo. Si nota un confronto con la pittura di De Stael.

Di De Stael mi piaceva tutto. Un mio dipinto del 1955 è proprio dedicato a lui. L’astrazione è un percorso che non ho mai rifiutato a priori e che non ho, d’altro canto, mai assunto aprioristicamente. Non doveva comunque rimanere un luogo freddo, doveva prestarsi a una comunicazione emotiva. Per questo, generalmente, introducevo un elemento figurativo che dava significato al contesto e lo dimensionava all’umano.

Si tratta sempre di modulare un linguaggio interpretativo in grado di cogliere le strutture meno evidenti della realtà. Le città notturne, cambiano totalmente l’espressione del proprio volto. Divengono più eteree ed astratte, più vere se per vero intendiamo ciò che all’improvviso appare come il nucleo centrale della loro anima. Ero interessato da questo aspetto.

 

Altri dipinti di vedute trasfigurate rinviano invece all’area del mediterraneo. Prevalgono cromaticamente il bianco avorio, l’azzurro, il blu.

Ho amato molto la Tunisia. Certe suggestioni sono nate attorno a quelle case candide, affastellate ai margini della cerchia urbana. Erano già quadri, a prima vista, frementi e solidi. L’Africa del Nord significa anche straordinarie rovine. In diversi dipinti mi sono confrontato con le vestigia del passato. Ero affascinato profondamente dal rapporto tra vita e morte, tra l’umano passaggio e ciò che resta di noi, al di là dei tempi, pur nel transito dei secoli, pur nello sprofondamento nella sabbia, tra piccoli serpenti velenosi. E la natura che preme con arbusti, che si rigenera, che si rinnova. A questo argomento ho anche dedicato alcune pagine di diario.

 

A un certo punto sviluppi il modello della città-isola, simile a una chiatta urbanizzata sulla quale stanno edifici, uomini-statua, donne. E’ la zattera della Medusa… Il capriccio architettonico posto sulla zattera diventa sempre più veduta metafisica. La città di pietra ospita la città di carne, le sue sofferenze, le sue proiezioni verso l’eterno.

Il rapporto tra il colore del mare e le città mediterranee è molto intenso. Sicché era facile l’isolamento della città in un abbraccio totalmente marino. Accedevo così ad una dimensione metafisica, a qualcosa che stava al di là delle apparenze, al di là del muro. Ma a quel punto forse, quelle vedute, sono già somma di città reali, giustapposte o sovrapposte nella memoria, una somma che porta alla configurazione a una città di fantasia. La presenza dell’elemento umano è indispensabile. E’ l’uomo a riempire di significati il mondo.

 

 

L’intervista è apparsa in Stile arte, 2004, nei numeri 76, 77,78,79 e 80