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Paolo Canevari –





 
Quando Paolo Canevari, dopo essere sceso dalla moto, mi venne incontro senza niente in mano, cominciai a preoccuparmi. Si era impegnato, infatti, a consegnare l’opera che sarebbe stata esposta il giorno dopo all’interno della chiesa di San Pietro alla Carità a Tivoli. Gli altri artisti (ricordo Giacinto Cerone, Lucilla Catania, Rossella Fumasoni, Cloti Ricciardi, Roberto Pietrosanti) avevano già sistemato i loro lavori nello spazio enorme, completamente svuotato, di quella magnifica chiesa romanica. Mancava solo il suo. La collettiva si intitolava Seminario, più per indicare un luogo e un momento di studio e di riflessione comune che per alludere all’istituzione religiosa. Eravamo nel novembre del ’96 e io ero il curatore. Non appena Paolo varcò la soglia della chiesa, trattenendo a stento il panico esclamai: “E il tuo lavoro?”; e lui:
“Tranquillo, ce l’ho”. Io pensai a uno scherzo. Capii solo quando Canevari, arrivato al centro della navata centrale, in linea con l’altare maggiore, tirò giù la lampo del giubbotto di pelle, da motociclista, ed estrasse quello che, a qualche metro di distanza, sembrava un pacchetto di stoffe mischiato con qualcosa di nero.
Il nero era quello di quattro nastri di gomma lunghi molti metri, alle estremità dei quali erano collegati altrettanti quadrilateri di stoffa di lino bianca su cui era dipinto qualcosa. Una volta disteso a terra, quell’involto di lino e gomma rivelò le sue iperscheletriche sembianze: un corpo rappreso in quattro fili di gomma che si incrociavano. Le sole estremità erano sinteticamente dipinte in nero sulla stoffa: la testa, le mani, i piedi. Senza dubbio, una straordinaria rappresentazione, essenziale e drammatica, dell’iconografia della croce. Quello era un capolavoro di semplicità ed efficacia, di ispirata antiretorica, di umanissima e laica partecipazione ai dolori del mondo. Un risultato massimo con un minimo di esibizione e di sforzo. La mostra – c’erano altre opere molto belle – fu un grande successo e mi diede la possibilità di realizzare ulteriori eventi a Tivoli e nel palazzo Rospigliosi di Zagarolo (fra i quali l’omaggio a Tano Festa, portato a termine con Roberto Lambarelli e il barone Franchetti, Festa per Tano).
Raccontare questo piccolo episodio non mi fornisce solo l’occasione di un ricordo piacevole ma – mi pare – rappresenta, per il lavoro di Paolo Canevari, il migliore dei biglietti da visita. Da quel giorno (la prima personale Camera d’aria da Stefania Miscetti era di cinque anni prima) questo artista, misurato e gentile nei modi, bello come un romano antico nell’aspetto, ha fatto un sacco di strada. Ma la sua ricerca nella struttura portante non si è scostata dai principi sottesi a quella povera croce. Disinteresse per la retorica del monumentale e, insieme, massima attenzione per la scultura intesa come pratica libera da condizionamenti dogmatici ma ancora, nell’essenza, debitrice della tradizione (Canevari è un figlio d’arte che ha fatto studi classici di artista). La memoria è l’unico monumento che piace a Canevari. Perché sul nulla, nulla si costruisce.

La sua scelta dei materiali si fonda sul rifiuto di quelli nobili e sulla preferenza per quelli poveri e poverissimi. I pneumatici e le camere d’aria. Materie impolverate e consumate, difficili da piegare allo scopo. Una difficoltà che Canevari trasforma in una risorsa plastica sicura. Ricordo, nei primi tempi della nostra amicizia, le rose, le armi in miniatura, i piccoli animali realizzati, appunto, con le camere d’aria. Fra i lavori della mia collezione a cui sono maggiormente legato c’è un quadro magnifico fatto con le camere d’aria che si estroflettono e introflettono, creando giochi di luce variabili e infiniti. Drappeggi di gomma luttuosi e indomiti. Senza paura, sfacciati e solenni. Era lo stesso nero delle sagome tracciate sui fumetti: le lupe e gli omini Michelin.
E ancora ricordo i disegni eseguiti per via di tratti vorticosi su carta che, quando gli girava, Paolo stropicciava (la prima volta che lo vidi agire così fu per un disegno che mi stava regalando e mi prese un colpo), accartocciandoli come per buttarli via per poi riaprirli, stirandoli con la mano, e ottenendo dei fondi tribolati e vibranti.
“Amo il disegno perché è qualcosa di molto fragile ed effimero, portato poi su una grande dimensione se ne amplifica il senso, il significato”, ha detto recentemente in un’intervista. Dare il senso della fragilità, della deperibilità e della finitezza è stata sempre una sua “fissazione umanistica”.
Il mondo, Canevari lo ha girato in lungo e in largo. Tra il 1989 e il 1990 ha vissuto a New York. Nello stesso periodo ha lavorato come assistente per Nam June Paik e Robert Yarber. Nonostante le origini capitoline, non ha mai dimostrato un particolare amore per l’ozio latino. Ha esposto a Los Angeles, Parigi, Kiev, Vienna, Francoforte, Dublino, Ginevra, Taiwan e Liegi. Oggi si divide fra New York e Roma. Alla Biennale del 2007, fra i pochissimi italiani invitati, presentò un video nel quale, in tremenda solitudine e davanti ad un edificio bombardato di Belgrado, un ragazzino palleggiava non con un pallone ma con un teschio umano. “Nell’era moderna il mondo è diviso in maniera politica e non geografica. I confini sono stati tracciati attraverso guerre, scontri, decisioni altrui”.  Per questo può capitare persino che un ragazzino giochi con un teschio e che la cosa gli sembri normale. L’utilizzo del video e delle tecniche digitali è abbracciato da Canevari nel momento in cui queste cose diventano di dominio pubblico. Niente di più del ricorso a materiali comuni e a tecniche correnti, quindi. Se il pneumatico era il simbolo di una società in crisi, quella degli anni Ottanta-Novanta, il video diventa a sua volta un mezzo, un veicolo come la gomma, attraverso il quale il nonsenso del contemporaneo racconta se stesso. Che nel video bruci un copertone o un teschio non cambia la qualità più intima del messaggio.
Le convinzioni di Paolo Canevari restano le stesse anche se i riconoscimenti e il credito internazionale aumentano: “Credo in un’arte che costruisca il suo senso in un processo mentale. Credo in una poetica dell’arte democratica, lontana da dogmi. I materiali, come le forme, sono il tramite per la definizione di un’idea, di un concetto; come tali sono transitori, sono
‘veicoli’ che accompagnano, sono la testimonianza di un processo”.
Le interpretazioni possibili sono molteplici come i punti di vista, e questo non spaventa l’artista, che su tale principio costruisce la sua personalissima dimensione “popolare”. Canevari è uno di quei non numerosi autori concettuali che mi piace. Perché usa i concetti insieme alle camere d’aria. E non imbroglia.
Clicca sul link per aprire il PDF e leggere testo, con immagini comparative:

[PDF] Le povere croci di Carnevari



STILE ARTE 2009