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Perchè e quando i pittori iniziarono a firmare le proprie opere. Claude Monet e la sua grafia

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Estremamente elegante in ogni sua scelta, Claude Monet studiò una perfetta integrazione tra la propria firma e il dipinto. E’ l’Ottocento romantico a scolpire, nei decenni precedenti all’esordio di Monet, la forte individualità dell’artista, il suo porsi geniale e unico, in quanto creatura irripetibile, di fronte ai misteri e alla bellezza del mondo. Nel XIX secolo, pertanto, l’atto di sottoscrivere un’opera, come fosse una lettera o un contratto, assume un’importanza notevole e diffusa. E’ a questo punto che, anche nell’arte inizia a proporsi con la griffe, cioè un marchio di moda, che attesta il valore del produttore, elevando anche il valore del prodotto, non tanto o non solo per la qualità in sè, ma in quanto prestigiosamente proveniente da un certo atelier. Ed è la centralità ideale della firma, che spesso sposta dall’opera al suo autore, il principale interesse. Nell’Ottocento, l’artista si trova a produrre in modo nuovo. Nei secoli precedenti, in genere, il pittore dipingeva secondo un contratto di committenza e legava la propria opera all’esigenza del cliente.

Nell’Ottocento si assiste, invece, soprattutto nella cosiddetta pittura di cavalletto, a una produzione di tele dipinte che prescinde dalla domanda di mercato, ma che tende a creare una griffe,a imporla. E’ materiale che non viene ordinato, ma viene prodotto, precedendo il desiderio d’aquisto dell’acquirente, come avviene in una fabbrica. Si creano così atelier-magazzino, si molpiplicano le mostre personali, mentre i Salon mantengono una connotazione fortemente permeata dall’accademia, che trasformava ogni grande mostra, sempre collettiva, in una sorta di concorso tra gli artisti, ai quali venivano poi assegnati lavori, come nell’Ancien régimeteresse. L’autografo posto alla base del quadro assume un valore intrinseco, un valore convenzionale pari a quello dei metalli preziose o delle monete auree. E’ per questo che Piero Manzoni, nel XX secolo proporrà la Merda d’artista da lui confezionata o comunque, etichettata, come spunto di numerosi approfondimenti divertenti, ma estremamente validi, come quelli sul rapporto tra povertà della materia prima e l’immenso valore aggiunto concordato dal mercato attorno a una semplice griffe, in grado di equiparare – come fece Piero Manzoni – il valore delle feci d’autore a quello dell’oro, fondamento valutativo per i mercati economici. Ciò spiega quanto nell’arte o in qualsiasi attività – la moda o il design avanzato e innovativo – si converga sulla netta riconoscibilità della firma – poi divenuta marchio o brand- che diviene oggetto di collezione per il valore simbolico ed economico che un’ampia comunità le riconosce, a prescindere dal valore effettivo di mercato che il prodotto stesso avebbe nel caso in cui lo stesso oggetto fosse prodotto da una bottega sconosciuta. E qui sta il gioco contemporaneo tra i Paesi industrializzati che pongono, nell’ambito del vestiario, griffe come valore aggiunto e status symbol per l’acquirente, e i mercati clandestini che copiano e commercializzano griffe e prodotto, con un spaventoso contenimento dei prezzi. Ma al tempo stesso è per questo motivo che una griffe assume un valore intrinseco, non più legato alla qualità del prodotto. Ciò accade evidentemente anche per i prodotti alimentari, soprattutto vini, formaggi e pasticceria d’alto livello, che si arricchiscono di un brand seduttivo di storia, unicità territoriale, cura artistica del prodotto.
Discorso complesso tra valori autentici e valori convenzionali. Comunque sia, nell’Ottocento l’artista si trova a produrre in modo nuovo.

Nei secoli precedenti, in genere, il pittore dipingeva secondo un contratto di committenza e legava la propria opera all’esigenza del cliente. Nell’Ottocento si assiste, invece, soprattutto nella cosiddetta pittura di cavalletto, a una produzione di tele dipinte che prescinde dalla domanda di mercato, ma che tende a creare una griffe,a imporla. E’ materiale che non viene ordinato, ma viene prodotto, precedendo il desiderio d’aquisto dell’acquirente, come avviene in una fabbrica. Si creano così atelier-magazzino, si molpiplicano le mostre personali, mentre i Salon mantengono una connotazione fortemente permeata dall’accademia, che trasformava ogni grande mostra, sempre collettiva, in una sorta di concorso tra gli artisti, ai quali venivano poi assegnati lavori, come nell’Ancien régime.
Singolarmente, nell’arte assistiamo a un processo inverso rispetto a quello della carta moneta. Un artista che ha dipinto poco o del quale sono rimaste poche opere – escluso, diremmo, il caso di Leonardo – ha quotazioni inferiori rispetto a un pittore che, come Picasso, ha prodotto nella propria vita un numero incommensurale di opere d’arte, di ceramiche, di cartoni, di disegni o schizzi. L’iperproduzione non provoca diminuzione di valore, ma aumento. Questo perchè Picasso è una griffe universalmente riconosciuta e sostenuta dai numerosi detentori delle sue opere, che portano ad avere un fronte ampio di soggetti economici che pongono la griffe dei dipinti in un processo di costante rivalutazione.
Ma torniamo a Monet, che comprese non solo il valore pubblicitario della propria firma, ma, inserito in un mondo commerciale in mutamento, capì il valore quasi assoluto che l’autografo assumeva nella società dell’epoca. Dotato di una bella scrittura, ariosa ed educata dai corsi di grafia che apparivano nei piani di studio della scuola di quei tempi, Monet scelse una firma graficamente bella e sciolta, tanto somigliante a quella che apponeva in calce alle lettere, utilizzando stampato maiuscolo con grazie e stampato minuscolo che tanto somigliavano a un timbro, a un marchio di fabbrica
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