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Pittura e alchimia, cosa significa la grotta nei quadri


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La grotta nell'illustrazione di un antico libro di alchimia
La grotta nell’illustrazione di un antico libro di alchimia

Luogo di un’oscurità mistica in cui sboccerà la luce della rivelazione, contenitore di tesori, onfalo che conduce al cuore della terra, all’Ade, al motore occulto del mondo, la grotta costituisce uno dei principali elementi del lessico degli archetipi – nella stretta connessione tra occulto e palese – così da diventare uno degli elementi chiave di rappresentazione della parte finale del percorso ermetico e alchemico.

Ne osserviamo la raffigurazione in numerose tavole, a corredo dei trattati di alchimia, nei quali il monte può apparire in sezione per mostrare le interne attività del ricercatore, con storte e alambicchi; o può presentarsi denso di buio e mistero. A volte la grotta alchemica, sempre negli stessi manuali – dai più antichi trattati al Settecento -, si avvicina all’idea di miniera, anche se la sua natura magica del varco è inequivocabilmente sottolineata dalla presenza di minuscoli minatori, che portano al capo cappelli simili a quelli del dio Attis.
Oppure nella pittura stessa, in opere direttamente dedicate all’alchimia oppure velata dalla quinta naturalistica in dipinti tout court, La profonda cavità che diparte dalla parete rocciosa – come ne i Tre filosofi di Giorgione– è il punto in cui arde il mistero oscuro dell’energia primigenia, il varco a cui s’accede, ordinariamente attraverso diverso sette simbolici gradini di conoscenza, viaggiando nella purificazione dei metalli e della coscienza, gradini che in modo schematico, nella manualistica, rappresentano le sette fasi in cui è suddivisa la Grande opera, nel corso della quale avviene la trasformazione della materia vile in oro spirituale o quintessenza o pietra filosofale. La grotta diviene pertanto simbolo del luogo protetto in cui sono conservati le leggi dell’universo e, al tempo stesso, e una cavità in cui si distilla la sapienza estrema.
La spelonca, nell’ambito della pittura e nella letteratura alchemica ha una connotazione positiva, poiché essa equivale al ventre della grande madre nel quale evolvono, in una sorta di gravidanza chimico-geologica, i materiali preziosi, grazie ad un’azione che può essere accelerata dall’alchimista stesso.

La necessità di accedere nelle viscere della terra per strappare il segreto dell’intimo motore del mondo è testimoniata dalla lettura in chiave d’acrostico della parola vitriol – che indicherebbe un sale – e che, al contempo costituirebbe un invito all’alchimista, secondo le indicazioni di Basilio Valentino, di scendere nel cuore del pianeta per trovare la pietra filosofale. (“Visita Inferiora Terrae Rectificandoque Invenies Occultum Lapidem”.
“Penetra nelle viscere della Terra e, percorrendo il retto sentiero, (o rettificando ndr) scoprirai la pietra che si cela ai tuoi occhi”).
Il valore simbolico dell’oscura cavità aumenta grazie ad altri elementi mitici, relativamente alla figura di Ermete Trismegisto, presunto fondatore delle dottrine ermetiche che costituirono una base teorica per la pratica alchemica. L’opera fondamentale di Ermete Trismegisto, la celebre Tavola di Smeraldo, fu rinvenuta, secondo la tradizione, nelle mani della mummia di Hermes, in una grotta quasi impenetrabile, dove il corpo del maestro era stato nascosto dagli adepti.
Estremamente attenti alle stratificazioni polisemiche, alle sovrapposizioni e agli intrecci semantici, gli alchimisti cristiani non mancarono di sottolineare l’evidenza che si instaurava tra la grotta-stalla in cui è nato Cristo e l’incarnazione intesa quale effusione di energia divina, immagine che, grazie alla mediazione dei francescani – i quali espressero tra i massimi alchimisti della storia – portò a una netta identificazione di Cristo con il lapis philosopharum. E’ per questo che la rappresentazione della Natività assume, agli occhi dell’iniziato, profonde attinenze con la scoperta del segreto divino, costituito dal quinto elemento, l’energia invisibile sottesa al Creato.
Betlemme diviene pertanto il luogo in cui si manifesta questa trasformazione dell’energia divina nella straordinaria ampolla corporea di Cristo, al quale Maria ha dato la vita.
Filalete, in un testo del XVII secolo, invitava il mago alchimista al pellegrinaggio sacro in Terra Santa, che è la terra filosofale dell’Opera: ” E tu, quando avrai visto la sua stella, seguila sino alla culla, e lì, rimuovendo ciò che è sordido, vedrai un bel’infante. Scrutando il cielo chimico, e scorgendo l’Astro, il saggio gioirà, ma il folle non ne farà nulla e non si istruirà nella saggezza, quand’anche vedesse il polo centrale volto all’esterno e marcato con il segno riconoscibile dell’Onnipotente”. Non è certamente un caso che nella struttura polisemica dei Tre filosofi di Giorgione, uno degli elementi di superficie ponga in evidenza, in un gioco straniante, alcuni elementi comuni tra gli antichi esponenti della filosofia ermetica e i Re Magi, i quali – anch’essi di etnie e di età diverse, nelle raffigurazioni più diffuse – portarono oro, incenso e mirra.

Eugène Canseliet, alchimista, allievo del grande Fulcanelli, sottolineò un punto di contatto tra la grotta di Cristo e il concetto di luce-energia che si sprigionerebbe alla conclusione del percorso alchemico, rifacendosi al Vangelo dello Pseudo-Matteo, tradotto in latino da San Girolamo: “E come ebbe detto queste parole, l’Angelo ordinò alla giumenta di fermarsi, perché era giunto il tempo di partorire; e raccomandò a Maria di scendere dall’animale e di entrare in una grotta sotterranea, nella quale non fu mai luce, ma sempre tenebre, perché all’interno non vi era luce del giorno. Ma all’ingresso di Maria, tutta la caverna cominciò a prendere splendore; e come se il sole vi si trovasse a mostrare giorno, così il chiarore divino illuminò la grotta; nè di giorno nè di notte vi mancò la luce di Dio sinché vi fu Maria”.
Pur senza palesi riferimenti alchemici, numerosi pittori fiamminghi rappresentarono Gesù bambino nella culla, emanante luce propria.
La grotta intesa come “luogo occulto, il recesso paradisiaco, dove viene custodito il tesoro donato da Dio ai mortali per guarirli dalle umane miserie e da ogni malattia, in breve, lo stesso lapis philosophorum” – come scrive Mino Gabriele in Alchimia e iconologia – ha radici pre-cristiane antichissime.
“Circa la grotta, descritta ne La Bugia attraverso una parabola, il Palombara dice che si tratta dell’antro di Mercurio, ‘il loco più delizioso del mondo”- afferma Gabriele nello stesso volume – Se da un lato questa affermazione può lasciare supporre l’esistenza di un ipogeo, naturale o artificiale che fosse, all’interno dei giardini sull’Esquilino, dall’altro evidenzia il significato mito-simbolico che un simile antro mercuriale assunse presso gli alchimisti”.
“L’origine del mito – prosegue lo studioso – è legata all’inno omerico A Ermes” (I, 2-16 e 246-51), dove si narra che Apollo, penetrato nell’antro di Mercurio, vi scoprì molto oro e argento. Questa grotta che porta in seno i metalli preziosi venne raffigurata nei libri alchemici con fini incisioni e immaginata secondo l’iconologia della caverna che accoglie il tesoro dei sette metalli/pianeti.

A sinistra, la grotta nel dipinto "I tre filosofi" di Giorgione
A sinistra, la grotta nel dipinto “I tre filosofi” di Giorgione

Cesare della Riviera scrive con cura sull’argomento e precisa che la porta per accedere a quel “celeste dono” si trova in Oriente, indicazione che ricorre anche ne La Bugia; concomitanza questa che lascerebbe supporre una dipendenza dello scritto del Palombara da quello di Cesare della Riviera, in considerazione anche del fatto che quest’ultimo tratta l’argomento dell’antro di Mercurio con una specificità che analogamente ricorrerà poi nelle pagine di Palombara. Tuttavia la fonte comune sono i Lithica di Orfeo, nei quali si parla del dono fatto da Zeus ai mortali per liberarli da ogni male: esso è custodito nell’antro mercuriale ed accessibile solo agli uomini saggi, pii e puri. E’ qui necessario ricordare che la base speculativa della dottrina espressa dal Palombara con la parabola dell’antro di Mercurio ha le sue radici nella cosmologia del Corpus Hermeticum, quando si spiega che la materia del mondo creato è immortale e di forma sferica, e che all’interno di tale sfera vi sono rinchiuse come in un antro le qualità di tutte le specie. La caverna diviene pertanto un’immagine del mondo, al cui interno per il Palombara si cela il tesoro della Natura, il lapis che guarisce e dona l’immortalità. (…) La prima è di rilevare quanto il simbolismo “ad Oriente” concordi con una tradizione diffusissima, pagana e cristiana, che vuole nel sorgere orientale del sole un indiscutibile segno dell’intelligenza divina che dipana le tenebre dell’ignoranza umana, la traccia quotidiana della primordiale epifania luminosa e della sapienza”. E non può sfuggire il fatto che la stessa grotta dei Tre filosofi poggia il proprio roccioso dorso a Oriente.
Clemente Alessandrino racconta che Pitagora fu iniziato dagli egiziani alla filosofia mistica in luoghi sotterranei (adyta) Le biografie di Pitagora (Porfirio, Vit. Pythm 9; Giamblico De vita pyth, 27) tramandano che il filosofo aveva scelto un antro isolato come “casa della filosofia”
Secondo gli alchimisti, la sostanza perfetta di questo mondo è il metallo solare, l’oro immortale. (curuz)