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Realismo in pittura – Fu una lancia vibrata contro l’eresia


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di Maurizio Bernardelli Curuz

Non può sfuggire lo stretto collegamento tra lo sviluppo del realismo in pittura e la diffusione dell’eresia. L’insorgenza del primo risulta, nell’ambito della storia dell’arte italiana, direttamente connesso con lo sviluppo della seconda. E’ lo strumento attraverso il quale viene fornita una risposta dottrinale.
Perché questa necessità di rappresentare la realtà secondo modalità sempre più aderenti al vero? Non si tratta soltanto del prevalere di una visione aristotelica del mondo (con un sempre più ravvicinato interesse nei confronti della rappresentazione precisa del reale); l’aderenza ottica non viene quindi giustificata soltanto dal pensiero tomista che fonde la linea aristotelica della materia alla metafisica cristiana e neoplatonica come non è nemmeno, soltanto, frutto dell’atteggiamento della società occidentale che tende a privilegiare i dati della fisica e, proprio a partire da quegli anni, sviluppa una battaglia “tecnologica” che condurrà successivamente, attraverso il razionalismo, prima, la scelta illuminista e positivista, poi, alla cancellazione dell’orizzonte metafisico. E il realismo non scaturisce nemmeno, in modo esclusivo, dal recupero degli esempi del mondo classico greco-romano, che furono comunque un’autentica miniera formale da cui cavare modelli nella rappresentazione della realtà.
Il movente principale, fra altre concause, fu di natura teologica. Tra il Duecento e il Trecento, in una dimensione teocratica, si giungeva ad enucleare una necessità fondamentale: rappresentare il corpo di Cristo come figlio dell’uomo. Fu questo il motore principale dello sviluppo del realismo. Questa la causa ideologica primaria che chiedeva di agitare vigorosamente, con le predicazioni e la pittura – intesa a quei tempi come predicazione per immagini -, il dogma cristiano dell’umanità di Cristo contro gli assunti delle teologie eretiche, soprattutto di origine dualista e manichea, trasfuse poi nel catarismo, che negavano la corporeità del Signore.

Il sillogismo sul quale i catari sviluppavano il proprio pensiero nasceva dalla certezza che il mondo fosse sostanzialmente diviso in due parti, assegnate a due diversi enti-agenti. La prima materiale, creata e flagellata dall’azione del demonio. La seconda spirituale, unicamente ascrivibile all’azione divina. La materia, secondo i catari, risultava pertanto segnata da uno stigma satanico e bestiale. Il diavolo continuava ad agire in essa e per essa attraverso infinite tentazioni, la sofferenza del corpo, l’umiliazione dell’anima. Ciò mutava in modo sostanziale, a giudizio dei catari, la considerazione della natura di Cristo: se il mondo materiale è una sfera d’azione esclusiva del demonio, risulta concettualmente impossibile che Dio abbia rivestito il proprio figlio di un corpo materiale, poiché in questo modo avrebbe circondato l’ anima divina – quindi se stesso – di un devastante abito demoniaco. Così i catari ritenevano che Gesù fosse essenzialmente una sostanza spirituale. Rappresentare il corpo di Cristo significava allora gettare idealmente l’anima del figlio di Dio nel fuoco eterno di una materia destinata alla dannazione.
Cimabue e Giotto, che rappresentano una delle più solide linee di ritorno al realismo in pittura – e parliamo di ritorno, giacché i romani e i greci avevano a lungo praticato questa strada -, lavorano per i Francescani, che vengono utilizzati dalla Chiesa come principale avamposto contro le insidie del catarismo.
La stessa predicazione francescana, diretta, anche attraverso i concetti che troveranno collocazione nel Cantico delle creature, a sottolineare la bontà della Creazione e ad esaltarla come frutto dell’azione divina, guida e dirige, sotto il profilo teologico, il realismo giottesco. I francescani avvertono la necessità primaria – in quanto esigenza anti-catara – di ribadire che Cristo, essendo figlio di Dio e dell’Uomo, era dotato di un corpo. E che questo corpo non differiva da quello di tutti gli altri uomini. La Resurrezione, come vittoria sulla morte, non avrebbe avuto significato se Cristo non fosse passato attraverso la materia, se non fosse stato egli stesso – come dimostrano la sofferenza, il timore, l’angoscia, il sangue – figlio di una donna.
Il rilancio vigorosissimo, nella predicazione, del dogma sull’origine umana e divina del Figlio di Dio fu originato pertanto dall’autentica guerra contro i catari che, nel XII e XIII secolo, fecero ampia opera di proselitismo in Serbia, nell’Italia settentrionale e nella Francia meridionale.
Il catarismo non solo invitava alla povertà – perché in essa ravvisava principalmente l’abbandono degli interessi materiali di natura demoniaca -, ma giungeva a delineare, presso alcune chiese, tra le quali il radicale gruppo di Desenzano del Garda, il rifiuto della realtà, del cibo, del matrimonio, della congiunzione carnale, in una rinunzia al mondo che passava attraverso digiuni, i quali, in alcuni casi, portavano i “perfetti” santamente alla morte, intesa come unica possibilità di liberazione dell’anima.

I francescani erano la nuova, straordinaria arma nelle mani della Chiesa. Il loro messaggio pauperista, la portata rivoluzionaria dell’imitazione di Cristo – che trovava in San Francesco il massimo eroe -, l’aderenza alla verità della materia come frutto della Creazione divina, avrebbero consentito ai frati di agire sullo stesso piano in cui operavano i catari, in funzione di potente antidoto alla perniciosissima eresia, la quale comunque si diffondeva e riusciva ad esercitare una forte seduzione anche nel mondo dell’ortodossia cristiana. Alla pittura spettava pertanto il ruolo di adeguarsi al vero, di rifiutare progressivamente i modelli bizantini che, con la loro ieraticità e distanza dal mondo, sembravano confermare l’assunto cataro di un’univoca natura spirituale di Cristo.
E’ per questo che proprio dai Crocifissi parte la rivoluzione di Cimabue, con una lievitazione delle forme piatte di matrice bizantina, lievitazione che, in Giotto, si completerà in una visione plastica e scultorea del corpo del Signore. L’artista si troverà nelle condizioni di assecondare la necessità di rivitalizzare Cristo, scolpendone pittoricamente l’anatomia del busto, delle braccia, delle gambe e del volto, evidenziando, al tempo stesso, uno straordinario elemento accessorio di verità, dipingendo, cioè, l’azione del peso – quindi della materia – sul corpo crocifisso, il quale risponde, in tutto e per tutto, alla legge di gravità. Questa autentica rivoluzione iconografica viene certamente alimentata dall’avvio di un confronto con gli antichi e con la statuaria di matrice gotica. Ma il movente, dettato dall’urgenza di nuove scelte iconografiche, trae la sua origine in modo primario dalla necessità di rappresentazione dell’umana immagine di Dio.
L’imitazione di Cristo, che fu il motivo centrale della predicazione francescana, viene rafforzata da una raffigurazione della divinità dipinta come ritratto veridico dell’uomo.
Non ritengo pertanto un puro caso che una delle terre ad altissima vocazione ereticale, come le province di Brescia e di Bergamo, luoghi nelle quali l’azione dei catari fu diffusissima e martellante, quanto vigorosa fu la penetrazione protestante, abbiano poi prodotto, nel Cinquecento, la pittura di “realismo feriale” che caratterizza quella scuola. Non sono soltanto dipinti nei quali appare illusionisticamente la descrizione della figura e degli ambienti, come avviene, in genere, nell’arte dell’Italia Centrale o delle grandi capitali, ma opere che calano Cristo e i santi in un tessuto antropologico e ambientale che si pone in linea perfetta con il mondo di ogni giorno, con la vita quotidiana, sul piano di una cronaca minuta.

Anche lo sviluppo di questa intensissima cifra pittorica inclinata alla descrizione della materia, che caratterizzerà la scuola bresciana e bergamasca – pur con tutti i precedenti iconografici immaginabili, siano essi fiamminghi, lotteschi, postleonardeschi -, appare contestualmente all’intensa attività d’inquisizione indirizzata prima alla repressione di presunti affiliati a sette demoniache (la caccia alle streghe nel 1518 fu pesantissima in Valcamonica, con cinquemila inquisiti), poi al contenimento del fenomeno luterano, in un tessuto sociale e religioso che ancora viveva su una linea di contestazione alla chiesa romana, ai suoi lussi, e che, nel 1498, avrebbe accolto la predicazione truculenta del Savonarola, il quale avrebbe ammesso di aver avuto le prime visioni proprio a Brescia.
Romanino e Moretto interpreteranno, pur con registri diversi, la necessità della Chiesa di disporre di exempla efficaci nella lotta alle dottrine riformiste che giungevano soprattutto dalla Svizzera, territorio con il quale la provincia era in costante collegamento per l’afflusso di maestranze e tecnici di miniera.
I principi eretici dilagavano tra gli stessi religiosi. Nel 1528 il Consiglio di Brescia si rammaricava che la città, in fatto di eresia, detenesse il primato tra tutti i centri cattolici d’Italia, ed eleggeva tre cittadini affinché garantissero la ricerca, la punizione e l’espulsione degli eretici.

E questi sono proprio gli anni in cui Moretto e Romanino, tenendo evidentemente conto delle esigenze della chiesa locale – e del resto non era possibile, nell’ambito dell’arte sacra, non considerare le ferree indicazioni dei committenti – associate alle proprie sensibilità spirituali (Moretto), giunsero all’elaborazione di una linea di risposta alla riforma protestante, operando in funzione di un ulteriore rafforzamento del piano della quotidianità nei dipinti.
Il pensiero sul quale fecero leva i committenti religiosi delle opere fu, evidentemente, il seguente: Dio non solo è figlio dell’uomo – ed è quindi dotato di un corpo -, ma torna quotidianamente tra i fedeli, in occasione della celebrazione dell’eucaristia.
Questo scendere tra gli uomini, questo fondersi con loro al tavolo dell’eucaristia, comporta, sotto il profilo iconografico, la scelta di rappresentare, come fondale alle figure e alle azioni di Gesù, degli apostoli e dei santi, gli stessi luoghi, gli stessi oggetti, gli stessi volti che caratterizzavano la dimensione quotidiana del Cinquecento bresciano.
Tutto partiva ancora da un confronto teologico sulla materia, com’era avvenuto ai tempi dei catari. Per i cattolici, la Messa non era soltanto commemorazione di un fatto lontano, ma rinnovamento della presenza di Cristo. Tra gli anabattisti, che si infiltrarono in queste province – fino ad aprire un centro di predicazione a Gardone Valtrompia -, permaneva il rifiuto della figura storica di Gesù e l’esaltazione dell’azione, svolta all’interno del credente stesso, dallo Spirito Santo, mediante le sue illuminazioni.
Ma, a mio giudizio, è contro lo svizzero Zwingli (1481-1531) che la pittura viene chiamata ad esercitare l’azione maggiore sotto il profilo della propaganda fidei. Per il riformatore svizzero, la Messa era solo una solenne commemorazione della morte di Cristo, attraverso la quale il figlio di Dio garantiva la sua presenza spirituale. Zwingli rifiutava infatti il concetto della reale presenza del corpo e sangue di Cristo, in quanto Gesù era asceso al cielo. Un corpo
– argomentava infatti – non può essere presente in più di un posto alla volta (in cielo e nell’ostia), e due sostanze (il pane e il Corpo di Cristo) non possono occupare lo stesso spazio nello stesso momento.
Ecco allora l’insorgere, in risposta alle “eresie” del Nord, di un fenomeno iconografico singolarissimo – i modelli presi “dalla strada”, come in un film neorealista ante-litteram, da Romanino, o i brani di natura morta di Moretto, o la descrizione minuziosa, in entrambi, come in un articolo di cronaca, della realtà circostante la divinità e i santi -, attraverso il quale la Chiesa corregge teologicamente, nell’immediatezza delle immagini, i gravi errori d’interpretazione commessi, a suo giudizio, dai teologi della Riforma. Ed è proprio sul dogma della transustanziazione e sull’Ultima Cena, che si gioca il passaggio fondamentale. E non è – nemmeno questa – una coincidenza che uno dei massimi sforzi richiesti a Romanino e a Moretto nell’ambito della pittura su tela riguardi proprio la cappella del Santissimo Sacramento, nella chiesa di San Giovanni a Brescia. Luogo nel quale
– siamo tra il 1521 e il 1523 – i due pittori offrono, pur con due linguaggi diversi, il confronto con la realtà del ritorno del corpo e del sangue di Cristo, inserito in un contesto di straordinaria quotidianità.
Dio si cala nell’ostia – contro ogni pensiero zwingliano – e scende nel nostro mondo ad ogni Messa, ribadirà Moretto nel Cristo eucaristico con i santi. Ecco, allora, due angeli che, utilizzando una tela come fosse un imbuto, portano Gesù nel cuore della particola. Una presenza corporea del Signore che, assecondata in altri dipinti da un fondale riferito alla cronaca, al segmento di contemporaneità nel quale tutti i fedeli possono riconoscersi, invita all’unione con Cristo.