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Pompeo Batoni, la rosa centifolia lascia presagire la sontuosità del sesso della modella. Il più bel fiore



di Enrico Giustacchini
Sontuosa, aulentissima centifolia. La regina delle rose, inventata dai giardinieri di Fiandra, per due secoli beniamina dei maestri della natura morta. Ne tiene un esemplare tra le dita grassottelle della mano destra, la protagonista della tela di Pompeo Batoni che qui mostriamo. Con la sinistra, la fanciulla sorregge un canestro traboccante di corolle, tutte splendide, tutte mirabili, seppur umilmente recline al cospetto di Sua Maestà. Il più bel fiore però è un altro. Il più bel fiore è un piccolo seno vezzoso, che vellica ignudo il profluvio di petali, e tallisce come un virgulto marzolino. Poc’anzi, le stoffe grevi della veste sono scivolate dalle spalle della giovinetta, giù, sempre più giù, fino a derapare in larghe, morbide crespe immote. Batoni realizza quest’opera a Roma nel 1744. E’ lo stesso anno in cui, dagli scavi a Villa Adriana, emerge con la potenza del miracolo la Flora capitolina. Quando la vede, Pompeo annichilisce, e subito dopo si innamora perdutamente di quella donna di pietra. Cosicché, è inevitabile la decisione di omaggiarla come sa fare, ossia con la pittura. Egli è conscio di avere, dalla sua un’arma in più: il colore dei fiori, della sovrana centifolia e dei sudditi di lei. Il colore di un capezzolo turgido. Il colore dei capelli del grano e delle labbra di ciliegia. Il colore delle guance, dove avvampano le inconfessate voglie e il turbamento sottile che porta con sé ogni ritorno della primavera. L’altra Flora, la statua antica ricomparsa dalle tenebre del sottosuolo, continuerà nei millenni a rapire gli occhi e il cuore deli umani con la perfezione delle membra immacolate. A Pompeo Batoni, artista proclive all’amore, saremo grati in eterno di aver fermato su quelle gote birichine la grazia altrimenti fuggitiva di un lampo vermiglio.