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No alla violenza sulle donne | O pallida Ofelia! bella come la neve! – Rimbaud


Ofelia, personaggio shakespeariano dell’Amleto (1600-1602) incarna la purezza e la necessità dell’amore in un mondo dominato dall’intrigo e dal delitto, Un amore che non trionfa, di fronte al male.

Un amore che si trasforma in pazzia, poi in morte. Figlia di Polonio, ciambellano di Elsinore, capitale della Danimarca, e sorella di Laerte, giovane cavaliere, Ofelia vive alla corte di Elsinore. Delusa dall’amore per Amleto che crede non puro, non veritiero e non disinteressato (Amleto rinnegherà i sentimenti per lei per non coinvolgerla nelle meschine trame dello zio Claudio, usurpatore del trono di Danimarca) e divenuta folle per l’assassinio del padre a opera dello stesso Amleto, terminerà la sua esistenza affogando in un corso d’acqua, scatenando l’odio e la vendetta da parte del fratello Laerte, che tenterà di uccidere Amleto.

Si ritiene che la figura di Ofelia sia apparsa nella mente di Shakespeare, a causa di un’immagine molto forte impressa dai tempi dell’adolescenza. Nel 1579, una giovane di Stratford, Katherine Hamlett, annegò accidentalmente nel fiume Avon. E il caso ebbe risonanza nel paese.

Ofelia fu particolarmente amata nell’Ottocento, come immagine dell’amore non corrisposto e della purezza del mondo femminile, contro quello maschile, portato alla guerra, al delitto e all’intrigo. L’immagine della giovane donna dipinta da Millais, al centro di uno specchio d’acqua grande come una bara, in un letto funebre circondato da splendidi, piccoli fiori, colpì l’immaginazione europea. Alla quale lo stesso, giovanissimo Rimbaud, non si sottrasse.

Ofelia – Arthur Rimbaud

Ophélie

I
Sull’onda calma e nera dove dormono le stelle
La bianca Ofelia ondeggia come un grande giglio,
Ondeggia molto piano, stesa nei suoi lunghi veli..
– Si sentono dai boschi lontani grida di caccia.

Sono più di mille anni che la triste Ofelia
Passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero;
Sono più di mille anni che la sua dolce follia
Mormora una romanza alla brezza della sera.

Il vento le bacia il seno e distende a corolla
I suoi grandi veli, teneramente cullati dalle acque;
I salici fruscianti piangono sulla sua spalla,
Sulla sua grande fronte sognante s’inclinano i fuscelli.

Le ninfee sfiorate le sospirano attorno;
A volte lei risveglia, in un ontano che dorme,
Un nido da cui sfugge un piccolo fremer d’ali:
– Un canto misterioso scende dagli astri d’oro.
II
O pallida Ofelia! bella come la neve!
Tu moristi bambina, rapita da un fiume!
– I venti piombati dai grandi monti di Norvegia
Ti avevano parlato dell’aspra libertà;

E un soffio, torcendoti la gran capigliatura,
Al tuo animo sognante portava strani fruscii;
Il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
Nei gemiti dell’albero e nei sospiri della notte;

L’urlo dei mari folli, immenso rantolo,
Frantumava il tuo seno fanciullo, troppo dolce e umano;
E un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido,
Un povero pazzo, si sedette muto ai tuoi ginocchi.

Cielo! Amore! Libertà! Quale sogno, o povera Folle!
Ti scioglievi per lui come la neve al fuoco:
Le tue grandi visioni ti strozzavan le parole
– E il terribile Infinito sconvolse il tuo sguardo azzurro!

III

– E il Poeta dice che ai raggi delle stelle
Vieni a cercare, la notte, i fiori che cogliesti,
E che ha visto sull’acqua, stesa nei suoi lunghi veli,
La bianca Ofelia come un gran giglio ondeggiare. 15 Maggio 1870

Ophelia è un dipinto a olio su tela del pittore preraffaellita John Everett Millais, realizzato nel biennio 1851-1852 ed appartenente alla collezione della Tate Gallery di Londra. Wikipedia

Ofelia nel testo di Shakespeare
« GERTRUDE: Una disgrazia incalza alle calcagna
un’altra, tanto presto si succedono.
Laerte, tua sorella s’è annegata.
LAERTE: Annegata! Ah, dove?
GERTRUDE: C’è un salice che cresce di traverso
a un ruscello e specchia le sue foglie
nella vitrea corrente; qui ella venne,
il capo adorno di strane ghirlande
di ranuncoli, ortiche, margherite
e di quei lunghi fiori color porpora
che i licenziosi poeti bucolici
designano con più corrivo nome
ma che le nostre ritrose fanciulle
chiaman “dita di morto”; ella lassù,
mentre si arrampicava per appendere
l’erboree sue ghirlande ai rami penduli,
un ramo, invidioso, s’è spezzato
e gli erbosi trofei ed ella stessa
sono caduti nel piangente fiume.
Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua,
l’han sostenuta per un poco a galla,
nel mentre ch’ella, come una sirena,
cantava spunti d’antiche canzoni,
come incosciente della sua sciagura
o come una creatura d’altro regno
e familiare con quell’elemento.
Ma non per molto, perché le sue vesti
appesantite dall’acqua assorbita,
trascinaron la misera dal letto
del suo canto a una fangosa morte. »
(Amleto, Atto IV scena VII, traduzione di Goffredo Raponi)