di Alessandra Zanchi
Tra le opere conservate nel Museo Lia di La Spezia c’è un importante capolavoro che appartiene alla seconda metà del Quattrocento veneziano. L’attribuzione è stata a lungo mantenuta dubitativa, oscillando tra l’ultimo periodo di Antonio Vivarini e il primo di Giovanni Bellini. Finalmente, uno studio approfondito sotto la guida di Luciano Bellosi ha confermato l’ipotesi “belliniana”. Abbiamo sentito in proposito il noto studioso.
Professor Bellosi, ci illustri la particolarità di questa tavola – raffigurante la “Natività con i Santi Nicola da Bari e Chiara” – che ora è un elemento isolato ma che era in origine incorniciata da ventidue riquadri. Quale poteva essere la destinazione d’uso?
Si tratta di una tavola che in origine, con il contorno dei riquadri, era piuttosto particolare. La “Natività” stava al centro, e tutt’intorno vi erano le scene della “Passione”, un’“Annunciazione” e quattro “Storie di Santi”, senza alcuna cornice divisoria. Si può ipotizzare la funzione di paliotto, al di sotto della mensa d’altare, o più probabilmente di dossale sopra l’altare stesso. Difficilmente poteva essere una tabella di pratica iconografica ad uso dei pittori d’arte sacra, come sosteneva ad esempio Longhi, perché questa funzione era assolta soprattutto da appunti grafici e disegni raccolti in album, ovvero da un repertorio agile, non da un’opera compiuta come questa.
Può raccontarci qualcosa della vicenda storica dell’opera? Ci sono notizie sulla collocazione, prima che entrasse a far parte della collezione di Amedeo Lia?
Fu Longhi a pubblicare per la prima volta il dipinto nel 1946, in occasione della prima mostra di pittura veneta del dopoguerra, a Venezia. A quell’epoca l’opera era ancora integra. Poi venne tagliata, smembrata nei singoli riquadri e dispersa in varie collezioni. Già nel 1959 la “Natività” era isolata e di proprietà bergamasca. Ad oggi conosciamo solo l’ubicazione del pannello centrale – presso il Museo Lia – e di quattro dei riquadri di coronamento, in collezione privata fiorentina.
Veniamo allora alle attribuzioni. Roberto Longhi nel 1946 è stato il primo studioso ad individuare la mano di Antonio Vivarini, con ricordi del giovane Bellini negli sfondi. Come è nata invece l’ipotesi della pista “belliniana”?
Convince sicuramente di più l’ipotesi del giovane Giovanni Bellini, e io daterei l’opera intorno all’inizio del 1450. Si tratta di una realizzazione non troppo impegnativa. Il tipo di composizione era infatti diffuso durante il Trecento in Veneto, ma assai poco trattato nel corso del Quattrocento. Questa è una rarità, e dunque tutto sommato una commissione secondaria e periferica che poteva essere eseguita dal giovane Bellini, ai tempi ancora attivo presso la bottega del padre. La qualità del paesaggio è poi decisamente belliniana. Anche se il colore degli alberi ha subito un viraggio nel tempo verso toni marroncini, si riconosce il suo stile pittorico.
Non mancano anche riferimenti al giovane Alvise Vivarini. Escludendo sicuramente la mano di Antonio Vivarini, ci sono dei richiami e delle somiglianze con opere di Alvise. Ma sono somiglianze che dipendono dallo stesso Bellini. Fu Alvise, in sostanza, a guardare al Bellini giovane assimilandone alcune caratteristiche.
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