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Raffaele De Grada quotazioni gratis






Sottraendosi al vortice dell’attimo luminoso, Raffaele De Grada si mosse in direzione di quanto di strutturale sta al di là dell’apparenza della natura, di quanto di permanente – ma non di immanente – giace sotto l’elemento ingannatore del visibile e del suo costante divenire. Una sfida cartesiana tra il velo ingannevole delle apparenze, che aveva ipnotizzato, attraverso l’imperio impressionista, la società tra fine dell’Ottocento e inizi del Novecento, e la verità della sostanza. De Grada lacerò quindi, dopo il primo abbacinante affidamento della pittura all’abbraccio panteistico con il tutto, lacerò, dicevamo, l’apparenza del fenomenico, ponendosi al di là degli sciami luminosi. E’ per questa capacità di De Grada di penetrare il paesaggio, cogliendone il tessuto sotteso, che Ennio Morlotti, un artista che sondò la materia naturale evidenziandone il reticolo che porta, ingrandimento dopo ingrandimento, al limite dell’astratto, avrebbe riconosciuto in lui un maestro indiscusso e indiscutibile. Ora il Comune di Rodengo Saiano, in provincia di Brescia – che ha imboccato con successo, sotto la guida dell’assessore Marco Rota, la strada degli eventi espositivi di qualità – propone un viaggio nella pittura di De Grada, con una mostra curata di Maria Luisa Simone e Nicoletta Colombo. Raffaele (1885-1957) nasce a Milano, ma esordisce in Svizzera. Il padre, Antonio, pittore e decoratore emigrato al di là delle Alpi con la famiglia, avrebbe sognato per il ragazzo un futuro improntato all’arte come solennità ed eloquenza. Invece Raffaele, nei momenti in cui non collaborava con papà, guadagnava, con il passo rapido di chi soffre di giovanile claustrofobia, i sentieri impervi, per ruscelli e boschi. Ne cavava una pittura intrisa di succhi freschissimi e ristoratori. che venivano letteralmente bevuti dalla borghesia svizzera. Ma nel 1913, proprio in virtù della positiva accoglienza delle proprie opere, pensò di mutare rotta poiché il consenso indicava la percorrenza di una strada già battuta. In lui si manifestava invece l’autentica pulsione del pittore moderno. Quella che porta allo scavo o all’articolazione di nuovi linguaggi. “Si trattava – scrive Nicoletta Colombo, riferendosi alle opere d’esordio – di boschi vivaci, ruscelli sinuosi nel verde, nevicate frizzanti, studi di alta montagna che suggerivano una poeticità pericolosa, proprio perché stavano portando la mano di Raffaele a una ricerca estetica al di sotto della quale l’abilità tecnica pareva saturare l’interesse compositivo”. E’ a questo punto che egli cerca di incardinare lo sguardo a ciò che non scorre, a ciò che resta sotto il tracciato della rapida apparenza. Ecco: fu un discorso di sostanza. La sostanza contro l’effimero, contro il velo più evidente della realtà. Un approccio filosofico alla narrazione pittorica espresso attraverso il rifiuto di quello che potremmo definire, visto attraverso i suoi occhi, il sublime inganno della superficie.
A questo passaggio contribuirono due elementi fondamentali: l’osservazione di Cézanne, che, abbandonato il percorso impressionista, si era mosso proprio alla ricerca di quell’elemento geometrico-reticolare che sta oltre il guscio del paesaggio, e i primitivi italiani. De Grada abbandonò pertanto la pelle del visibile, per sondarne la carne, le arterie, le vene, i nervi, il tessuto connettivo. “Mio padre, durante la sua vita dedicata completamente alla pittura, ebbe tre tempi di creazione – scrive il critico Raffaele De Grada junior. – Il primo, giovanile, dal 1900 al 1918, sorretto dalla pratica di aiuto nelle decorazioni anche di vasto impegno del padre Antonio e da studi seriamente condotti nelle Accademie di Dresda e Karlsuhe negli anni splendidi delle Secessioni mitteleuropee, fu segnato da felici viaggi in Italia – nel Lazio, in Umbria e specialmente in Toscana – nella scia comune a quei tempi nei pittori del Centro Europa, della nostalgica ispirazione del paesaggio classico, e dall’altra parte dalla pittura di montagna di cui Giovanni Segantini, amico fraterno del padre Antonio, era stato l’esempio proprio in Svizzera. La conoscenza di mia madre Maddalena (detta poi Magda) Ceccarelli, maestra di scuola e poetessa di San Gimignano, e la prima guerra mondiale interruppero il periodo svizzero di mio padre ed aprirono dopo il 1919 il periodo toscano (1919-1929), più conosciuto per i rapporti che De Grada ebbe con il gruppo lombardo del Novecento. (…) Questo periodo fu contraddistinto dalla volontà di adoperare la visione di Cézanne per una nuova lettura dei primitivi toscani che studiò profondamente, anche con libere copie”. Ed ecco la terza svolta. “Ma, ed è ciò che appare lodevole nell’arte di mio padre – aggiunge Raffaele De Grada junior -, egli sentì il pericolo che uno ‘stile’ che lo seguì fino all’affresco della Triennale del 1933 potesse diventare uno ‘stilismo’ e si aprì, confortato dalla verde risonanza del paesaggio lombardo e attento agli inquieti seppur confusi sommovimenti dei giovani amici che diventarono poi gli artisti di Corrente, ad un’arte di libera interpretazione della vita degli alberi e delle erbe in natura dove il flusso dell’esistere si placa ed è sempre diverso, per cui chiuderlo in uno stile mentale significherebbe esaurirlo e alla fine estinguerlo”. “A Milano – annota Nicoletta Colombo – mutò l’ispirazione; dopo le atmosfere secche, calde, essenziali e robuste dei dipinti di Toscana, De Grada si trovò a fare i conti con una realtà nuova: l’atmosfera, l’umidità, la nebbia, la malinconia della terra, dell’arte lombarda. La sua pittura si fece più tonale, atmosferica, assunse una vaporosità di grigi e di azzurri e si staccò dalla secchezza cézanniana per addolcirsi. Nei paesaggi fiorentini c’era la gioia del pittore immerso nella natura, nella città grigia l’uomo era spinto a guardarsi attorno, ma soprattutto a guardarsi dentro”. E proprio per questa necessità di non rimanere alla pelle della percezione egli si trovò a rifiutare ogni facile soluzione stilistica che mettesse in luce il trionfo del bello naturale. Il suo fu un confronto solitario e diretto con ciò che si collocava al di là del sembiante. “E dentro la solitudine – scriveva Giovanni Testori parlando dell’opera di De Grada – bisognerebbe segnalare poi il fermo, continuo rifiuto d’ogni soluzione plastica che determinasse, in qualche modo, una proposizione ‘trionfante’, fosse pure essa pagata con la moneta del dolore e del sangue.
Non era l’epopea, neppure quella dedicata alla bellezza del mondo, che interessava De Grada: bensì l’esercizio d’una quotidiana devozione di lei, la bellezza; e il viverla, prima, e restituirla, poi, tale bellezza, con quella medianità di toni che risultano quanto di meno Novecentista si possa immaginare; e quanto, invece, di più legato alla tradizione domestica, umile e feriale di tutta la storia della pittura della Lombardia esista; fin da quando tra pareti di chiese e pareti di castelli o di palazzi comunali, essa andò stabilendo le proprie fondazioni”. Un concetto di solidità, che sta proprio, come dicevamo all’inizio, nell’abbandono di ogni registrazione dell’effimero. “De Grada, che ha sempre nutrito una sfiducia motivata per l’effimero paludato di retorica e non soltanto fascista – conclude Raffaele De Grada junior -, ha seguito con interesse culturale tutte le vicende del ‘moderno’ per rafforzarsi in un’idea originale di poetica del vero che chiede alle nuove generazioni di essere intesa al fine di un progresso di civiltà, che si realizza riassorbendo le necessarie e storiche ‘rotture’ senza dimenticarle, ma anche senza esserne subalterni”.

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