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Raffaello: le sue poesie d'amore in originale e nella versione dell'italiano di oggi. Qui



di Maurizio Bernardelli Curuz

 Forse nei mesi in cui l’artista realizza la Scuola d’Atene – o in tempi immediatamente successivi -, Raffaello scrive sei sonetti d’amore, utilizzando le carte degli studi compiuti per la realizzazione dell’affresco dedicato alla Disputa del Sacramento (fine del 1508-1509).
In recto o in verso ai fogli di disegno egli, in stile petrarchesco, narra in prima persona una storia d’amore che raggiunge, anche attraverso la prova della conoscenza carnale, il superiore grado dell’estasi spirituale. Ricorrenti in queste opere poetiche – che noi possiamo leggere in prima, seconda stesura e, pertanto, ancora in abbozzo, senza poterci misurare con le composizioni finite che sono andate smarrite – sono le richieste di segretezza del rapporto.


Nel primo sonetto, Raffaello si rivolge ad Amore. Amore lo ha catturato attraverso due begli occhi di donna – nei quali il poeta-pittore si strugge -, attraverso un volto che ha il candore della neve e il colore vivace di una rosa e una voce femminile caratterizzata da un bel parlar. Raffaello afferma di ardere d’amore al punto che né il mare né i fiumi spegniar potrian quel focho; ma ciò non gli spiace poiché, ardendo, egli si consuma e, consumandosi – lascia intendere l’artista – avrà il dono di non sentirsi più avvampare dalle fiamme.
L’autore si rivolge quindi alla propria donna ricordandole quanto sia doloroso (io sento mortal pena) sciogliersi dal “giogo” e dalla “catena” delle candide braccia allacciate al suo collo. Quindi, temendo che sul proprio amore cali la morte, Raffaello si astiene dall’aggiungere altri particolari, decidendo di tacere i pinsir a te rivolti.

Anche il secondo sonetto è dominato dalla dimensione dell’ineffabile. L’autore paragona se stesso a san Paolo quando, “scendendo” dal cielo dopo aver avuto esperienza del mistero di Dio, non riferì ad alcuno ciò che aveva visto; nello stesso modo, il cuore di Raffaello ha coperto ogni pensiero di un “amoroso velo”. Tutto ciò che ha visto, tutto ciò che ha compiuto in funzione della felicità, rimane chiuso nel suo petto; ed egli diventerà vecchio senza aver sciolto l’obbligo di tacere. Quindi invoca la donna, affinché lo soccorra con la sua grazia, in quanto si sente morire a poco a poco.
Il terzo sonetto, percorso dall’aria torrida della carnalità, si inserisce nel clima dell’alba, una consolidata formula poetica basata sulle lamentazioni per il temporaneo distacco degli amanti, nel momento che precede l’arrivo del giorno. Raffaello afferma di essere dolcemente percorso dall’intenso ricordo dell’“assalto” amoroso consumato poco prima, ma aggiunge di sentirsi gravato dal pensiero di aver dovuto lasciare la sua donna e di essere pertanto restato come coloro che hanno perso la propria stella nel mare.

Seppur temporaneamente, scioglie il nodo del silenzio per poter riferire del grave affanno provocato dal dolce inganno dell’amore, inganno per il quale ringrazia comunque Amore stesso e loda la sua donna. Quindi ricorda il momento in cui era giunto nell’appartamento della ragazza, dopo il tramonto del sole, quando un altro astro era salito – la luna e la donna – all’orizzonte, portando nella casa un’atmosfera più adatta a far fatti che parole. E per quanto egli senta il desiderio di raffigurare il fuoco dal quale è tormentato, si trova a tacere per l’incapacità di esprimere efficacemente il sentimento.
raffaello velata
Il sonetto in cui allude
al segreto
che li unisce
e che li divide
 
Di grande rilievo, per l’intimo tono di confessione e per l’allusione al segreto che lega i due amanti, è il sonetto Sate servir parmi sdegnase amore. La carta, che anche in questo caso si ritiene legata agli studi compiuti in preparazione della Disputa del Sacramento, presenta un disegno a penna, raffigurante un uomo in abiti romani e una donna nuda. Il sonetto è stato vergato nella parte superiore del foglio. Evidentemente, come nelle altre composizioni, siamo a fronte di una prima – e seconda nella parte destra della carta – stesura, poiché numerose sono le varianti compiute dall’autore. La trascrizione delle prime righe è la seguente: Sate seruir par mi stegeniase amore / per li effetti dimostro da me in parte / tu sai perché senza vergare in carte / chio nono mostro el contrario chio nel core.
“Stegeniase” non è – a mio giudizio – stringesse com’è stato proposto da diversi studiosi, ma “sdegniase”, sdegnarsi, inteso nella sua accezione di rifiutare, un verbo il cui uso è attestato in questa forma, tra gli altri, in Boccaccio. Proponiamo pertanto una versione più vicina all’italiano corrente, per poi cercare di evidenziarne il significato.
 
Se a te servir per me sdegnasse Amore
per l’affetto dimostrato da me in parte
tu sai perché, senza vergarlo in carte,
io non mostro il contrario che ho nel cuore.
Se esso dovesse giungere al marzial furore
io grido e dico che tu sei il mio signore
su, dal centro al ciel, più che Giove e Marte
e che schermo non val né ingegno o arte
a schivar le tue forze e il tuo furore.
 
Pare di comprendere che Raffaello voglia giustificarsi con l’amata poiché egli non è nelle condizioni di dimostrarle pubblicamente il suo amore. “Se Amore rifiutasse di servirti attraverso di me – scrive in sostanza l’Urbinate – a causa delle mie scarse dimostrazioni dei suoi effetti, tu sai perché, senza che io lo scriva, io non mostro, al contrario, ciò che ho nel cuore. Se Amore, per quel motivo, dovesse infuriarsi, io risponderei: tu sei il mio signore, al centro del cielo, più che Giove e Marte, e non vale nessuna protezione, né stratagemma per schivare le tue forze e il tuo furore”.
Torniamo a quella frase: “Tu sai perché, senza vergarlo in carte, io non posso dimostrare ciò che provo”. Qual è il segreto di Raffaello? Perché il legame, a causa dell’artista, non può diventare di pubblico dominio?
 
Quel tuo volto di neve e di rosa…
Ecco il primo sonetto del pittore
 
 
Amor, che m’envocasti con doi lumi
de doi beli occhi dov’io me strugo e (s)face,
da bianca neve e da rosa vivace,
da un bel parlar in donnessi costumi.
 
Tal che tanto ardo, ch(e) né mar né fiumi
spegnar potrian quel foco; ma non mi spiace,
poiché ’l mio ardor tanto di ben mi face,
ch’ardendo onior piud’arder me consu(mi).
 
Quanto fu dolce el giogo e la catena
de’ tuoi candidi braci al col mio vòl(ti)
che, sogliendomi, io sento mortal pen(a).
 
D’altre cose io non dico, che for m(olti)
ché soperchia docenza a mo(r)te men(a)
e però tacio, a te i pens(er) rivolti.
 
 
Amore, che mi hai adescato con la luce di due occhi belli, al cospetto dei quali io mi struggo, con una pelle a tratti candida come la neve, a tratti dal colore di rosa vivace, con il tuo bel modo femminile di parlare. Tanto ardo, che né mari né fiumi potrebbero spegnere quel fuoco; ma ciò non mi spiace, perchè il mio ardore mi dà una soave voluttà, che sempre più, ardendo, mi consuma.
Quanto fu dolce il giogo e la catena delle tue candide braccia strette al mio collo! Sciogliendomi dall’abbraccio io sento una pena mortale. D’altre cose non dico, che sarebbero molte, perchè parlare di tutto questo potrebbe avere gravi conseguenze, e perciò taccio i pensieri a te rivolti.
 
L’amore come percorso iniziatico
 
L’Urbinate attendeva l’incontro con l’Amore-elevazione. Cercava l’Amore-compimento, affinché, dopo l’iniziazione petrarchesca allo sguardo che sublima, fossero espletati tutti i passaggi, fino al più alto grado della scala del sentimento e della conoscenza, dove soffia il vento dello spirito e tutto appare più chiaro; lasciando sotto di sé i gradini dell’amore ordinario, a tutti concesso – sostanziato dall’attrazione indifferenziata nei confronti dell’altro sesso – e dell’amore orientato  a una sola persona, ma incapace di aprire le porte più alte della spiritualità,  egli puntava al terzo stadio dell’amore platonico, nel quale si realizza la fusione degli spiriti, i quali hanno la possibilità di elevarsi all’altezza del mondo delle idee. L’elevazione attraverso l’amore e la bellezza avrebbe pertanto consentito il passaggio dalla “conoscenza oscurata” alla scienza della verità.
La ricerca dell’amore diveniva tensione indirizzata a una condizione di grazia, in grado di trascinare l’anima a una più alta dimensione di spiritualità, e di consentire l’accesso, com’era avvenuto in Petrarca e in Dante, a un mondo superiore. Dall’occupazione di quel punto innalzato scaturiva la possibilità di osservare la realtà nei suoi tratti essenziali e nei suoi valori fondamentali. Da ciò sarebbe disceso il dono della chiaroveggenza in grado di favorire la rappresentazione, in un’incisiva e limpida elaborazione poetica. Lo stesso Petrarca – tra i tormenti suscitati dall’assenza fisica dell’amata che diviene simbolo della tensione verso la divinità – aveva riconosciuto a Laura di essere stata causa e origine di una produzione poetica collocata al di là delle esperienze ordinarie.
In Raffaello si assiste peraltro a una più moderna – e cortese, vorremmo aggiungere – lettura del “rapimento amoroso”, che non esclude il coinvolgimento sensuale e carnale, come punto da cui partire per giungere alla fusione dello spirito. Un culto neoplatonico che non limita la corporeità – come dimostrano le eloquenti allusioni erotiche contenute nei Sonetti dell’Urbinate – e che si colloca nell’orbita del pensiero di Marsilio Ficino, che fu punto di riferimento per la corte medicea e che intrattenne intensi contatti con la corte di Urbino. Ficino, muovendo dal commento del Simposio di Platone, aveva elaborato un pensiero composito Sopra lo amore, caratterizzato dalla gradualità iniziatica. Sostanzialmente il filosofo aveva individuato – e non vi sono dubbi che Raffaello conoscesse il nucleo di questo pensiero, giacché esso risultava centrale nei circoli intellettuali vicini al pittore – quattro stadi di discesa dell’anima, in un percorso digradante e degradante dall’assoluto divino alla realtà umana. Tutto parte, in negativo, dall’allontanamento dalla verità di Dio che comporta la perdita di una visione illuminata e illuminante della realtà. La salvezza, rispetto al caos della moltitudine e alla prigionia dell’anima, segregata dalla materia e obnubilata dalla moltitudine fremente in cui la materia si “incarna”, discende ancora dall’Uno plotiniano, al quale è possibile raccordarsi attraverso il “furore divino” che consente l’ascesa per gli stessi gradini, lungo i quali, nel percorso inverso, l’anima aveva perso la visione della luce primaria e la possibilità di conoscenza dei valori fondamentali dell’universo. In ordine di importanza, Ficino delinea i quattro gradi del furore divino che innalzano l’anima. Il primo è costituito dal furore poetico, collocato sotto la protezione delle Muse; il secondo è il furore misterico presieduto da Bacco e sostanziato dall’orfismo; il terzo è il furore della divinazione favorito da Apollo; il quarto è “l’affetto d’amore”. Il percorso del primo tratto di amorosa ascesi è favorito dalla poesia che risveglia l’anima, ne addolcisce le parti turbate, eliminando ogni dissonante elemento di disturbo. Al secondo livello, presieduto da Bacco, avvengono sacrifici e purificazioni orientati all’eliminazione del caos della moltitudine che, nel mondo fisico, ha disorientato l’uomo rispetto all’obiettivo dell’ascesi spirituale e della conoscenza ad essa collegata. Qui avviene la focalizzazione del pensiero sull’obiettivo divino. Il terzo gradino, sul quale prende posto simbolicamente Apollo, consente all’iniziato di porre l’anima sopra la sfera della razionalità, accedendo pienamente a possibilità di divinazione e di chiaroveggenza. Ma, come scrive Ficino, di tutti i furori divini lo amore è il più nobile9. E più avanti: Di tutti questi furori il potentissimo e prestantissimo è lo Amore: potentissimo, dico, perché tutti gli altri necessariamente hanno di lui bisogno (…) Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare a la divina bellezza desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza. Ne deriva che la bellezza è in grado di aprire, se non si ferma all’esclusiva consumazione del corpo dell’amata, orizzonti nei quali avviene la congiunzione con Dio.
 
Lo stesso Plotino, introducendo elementi nuovi nel più rigido orizzonte della configurazione platonica dell’amore, aveva dato più forza alla coesistenza della contemplazione della bellezza superiore e di quella terrena, introducendo il concetto di percorso iniziatico, ampiamente ripreso, tra Quattrocento e Cinquecento, dai circoli umanistici. Il filosofo, infatti, annotava nelle Enneadi: Gli uni onorano la bellezza terrena e se ne accontentano, gli altri onorano quella di lassù in quanto ne hanno un ricordo, ma non disprezzano questa che è di quella un effetto e una rappresentazione. Costoro (si accostano) alla bellezza senza cadere in turpitudini (…)10. La società rinascimentale, in linea con i presupposti filosofici neoplatonici e con il topos della donna angelicata di derivazione stilnovista e petrarchesca, aveva rafforzato il modello di riferimento alla femminilità ideale. Nell’elaborazione cortese della dottrina dell’amore, affrontata da Baldassare Castiglione – e a noi giunta attraverso la ricostruzione dei colloqui d’Urbino compiuta ne Il cortegiano -, l’autore, che sappiamo intimo amico di Raffaello, estende l’azione della “bellezza che eleva” da una sfera puramente legata all’aspetto fisico a una “bellezza dell’anima” e dei modi, manifestata attraverso un’elegante gestualità, i nobili portamenti, la cultura e un’intensa sensibilità sicché molte altre cause ancor spesso infiammano gli animi nostri, oltre alla bellezza: come i costumi, il sapere, il parlare, i gesti e mill’altre cose, le quali però a qualche modo forse esse ancor si potriano chiamare bellezze11. L’attrazione fisica non è condizione sufficiente, a giudizio di Castiglione, per favorire la salita della scala dell’amore, giacché risulta indispensabile la liberazione dei valori extracorporei.


Anche Raffaello aveva pronta in sé l’“esca amorosa” (l’esca amorosa al petto avea/ qual meraviglia se di sùbito arsi? aveva scritto Petrarca) che si sarebbe accesa nel momento in cui all’orizzonte fosse apparsa la sua Laura. Il pittore si mise in attesa. L’amore sarebbe stato fonte di felicità e di ispirazione.
raffaello fornarina
 
 
L’amore come fonte d’ispirazione
 
L’arrivo di Raffaello a Roma, come sottolinea Claudio Strinati, avvenne sotto il segno sovrano del concetto di “ispirazione”. Tutto, nella sua pittura, dimostrava una tensione alla grazia, intesa come una concessione accordata dai livelli superiori dello spirito. E’ manifesta in lui un’interpretazione nuova del concetto stesso di “ispirazione” – scrive Strinati -. Non è casuale, forse, che gli argomenti prediletti delle sue prime opere romane, siano proprio quelli legati all’ispirazione e alla profezia. La Galatea è l’immagine stessa della “figura ispirata” che attende gioia e soddisfazione. La modella con i capelli bruni e il volto dolce – colei che, fornendo i propri tratti alla Madonna dell’Impannata, fu incarnazione di tutto quello che di bellezza si possa fare nell’aria di una vergine, dove sia accompagnata negli occhi modestia, nella fronte onore, nel naso grazia e nella bocca virtù – fu la donna della profezia esistenziale di Raffaello; colei che portò il pittore a una maturazione sentimentale d’osservanza neoplatonica, in grado di incidere profondamente sull’evoluzione pittorica dell’artista.
Attraverso la ragazza dai grandi occhi bruni, Raffaello vide la possibilità di percorrere la lieta risalita in direzione del luogo delle Idee. Un’autentica ascesi amorosa, non disgiunta dal godimento delle bellezze fisiche e morali dell’amata, un percorso paragonato, in un sonetto amoroso dello stesso Raffaello, all’accesso ad orizzonti paradisiaci nei quali la verità viene rivelata.
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