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Rapaccini, le icone danzanti




donnamalinconicapienadiorpelli_1[“L’]arte è dappertutto intorno a noi. Tu non dici che questo. Parti da pezzi di legno, da frammenti di rame, di tessuto, di sogni d’infanzia, da tutto ciò che trovi. I tuoi personaggi hanno la testa piccola e il corpo grande. Soprattutto le braccia sono strane. Si direbbero alghe sottomarine. Spesso ci sono dei pesci. Il tuo mondo vive sul fondo di un mare senz’acqua. Ma c’è un’altra cosa. Tu conosci Milton Glaser, il grande artista americano. Colleziona icone russe. Sono dipinte bene come i Memling che si possono vedere a Bruges, lungo il canale. E io guardo le tue immagini e mi chiedo se non sei tu la persona che ha inventato le icone arrivate dall’Italia. Ma al contrario delle icone russe i tuoi personaggi danzano, svolazzano portati da un vento arrivato da chissà dove. A volte i capelli vanno tutti da una parte e anche tutti dall’altra, nella stessa immagine. Le tue icone sono sogni di bambini che si abbandonano al piacere di essere create. Proprio come accade ai bambini, tutto ciò che trovi diventa una partenza”. A scrivere questo di Chiara Rapaccini, in arte Rap, non un critico qualsiasi. A scrivere questo di Rap è stato nientemeno che il compianto Jean-Michel Folon. E scusate se è poco. La testimonianza è riportata nell’accattivante catalogo (Nuages editore) che ha accompagnato la mostra dell’artista toscana nella sua città d’adozione, Roma, alla galleria Spazio Sette. “Disegnare è una cosa naturale per me – confessa Rap -, posso farlo ovunque, in mezzo alla gente, nella confusione. Prima sporco il foglio o la tela con una pennellata, poi mi butto, è come nuotare per uno che si sente pesce… Via via che maturo, semplifico sempre di più sia le forme che i colori. Ormai uso solo i primari e il mio segno si è fatto spudorato, nitido e angoloso. Finalmente non voglio più piacere a nessuno”. In Chiara Rapaccini, l’amore per il disegno e la pittura è andato sin dagli esordi di pari passo con quello per l’incisione. “Ho cominciato a incidere da ragazza, a sedici anni, nello studio di Enzo Faraoni, un bravo pittore post-macchiaiolo, che aveva uno studio in piazza Donatello, a Firenze – ricorda l’artista -. Andavo da lui per posare, tra grappoli di aglio e rami di pesco. Facevo parte delle sue nature morte, guadagnandomi così qualche lira. Faraoni mi ha iniziato all’incisione, un pomeriggio di autunno. Mi ha dato un bulino e una tavoletta di rame coperta di cera. Vai, Chiara, mi ha detto, graffia. Grattare una superficie è più facile che disegnare o dipingere. E’ un gesto istintivo e ancestrale”. Finché, un giorno, dipingere, disegnare, incidere non sono più bastati all’intraprendente e curiosissima Rap, che sentiva di dover sondare le possibilità espressive della terza dimensione. “Fogli, tele, cartoni mi sembravano troppo piatti, orizzonti desertici per me che avevo bisogno di sky line increspati come quelli del Bund di Shangai, la riva sinistra del fiume che attraversa la città, di fronte al quale impallidisce anche quello di New York”. Le silhouette in legno dipinto, montate su basi di legno vecchio recuperato – esposte alla mostra romana -, nascono da qui, “da questo bisogno impellente di ‘costruire’, di dare corpo alle mie figure… Alcune sono enormi, altre piccolissime. Un compromesso tra la bidimensione del disegno e la tridimensione dell’opera che sarebbe venuta dopo. Avevo scoperto la materia, un universo immenso e inesplorato… Ho cominciato con il legno e ho proseguito poi con il rame, il ferro, le stoffe tessute a telaio; ho fatto vele, pesci, canne da pesca, piccoli soli dondolanti come i Mobile di Calder”. Sono state proprio tali creazioni, tali mirabili, surreali icone fluttuanti, a fare innamorare Folon. E tuttavia Chiara Rapaccini – inutile dirlo – non s’accontenta, né rinuncia a continuare a cercare, a percorrere, pervicacemente, le multiformi e variegate strade dell’espressione e della fantasia. (e. giu.)