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Rebecca Horn quotazioni gratis e intervista




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rebecca horn
 
Rebecca Horn è nata a Michelstadt, in Germania, nel 1944. A diciannove anni si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Amburgo, che deve però lasciare quasi subito per una malattia ai polmoni. Dopo aver trascorso un interminabile periodo in ospedale, comincia a creare opere originate dalla riflessione sul proprio corpo indebolito, in particolare progettando e realizzando le Body Extensions, sempre indossate e filmate in super8. Tra di esse troviamo un cappello a cono, ispirato alla leggenda dell’Unicorno, una Pencil Mask fatta di cinghie al cui punto d’incontro sono inserite delle matite, i Finger Gloves, dove le dita si allungano grazie a protesi in balsa e tessuto.

A partire dai primi anni Settanta, la Horn traspone le sue esperienze in performance, dipinti, sculture (fisse e mobili), poesie, video e film, dando luogo ad un’attività sempre ai limiti tra linguaggi differenti, e consolidando il proprio ruolo di protagonista dell’arte contemporanea internazionale.
Nel tempo, molte sue opere assumono il carattere di grandi installazioni ambientali: per esempio, una classe di scuola elementare è ribaltata e attaccata al soffitto come segno, seppur tardivo, di protesta verso il maestro; una torre in cui erano state eseguite torture viene bersagliata dal rumore di martelletti metallici e dallo sgocciolare insopportabile di un liquido; su una valanga di macerie si ergono angeliche trombe…
L’artista ha esposto nei più noti musei e gallerie di tutto il mondo, tra cui il Guggenheim di New York, il Musée d’Art Moderne di Parigi, la Tate Gallery di Londra, ed è stata insignita di prestigiosi premi e riconoscimenti. si è avvicinata pure al teatro d’opera, in qualità di regista e scenografa
 
 
rebecca horn 1
 
 
intervista di Enrico Giustacchini
 
Stile ha incontrato Rebecca Horn.
 
Negli anni della giovinezza, lei è stata colpita da una grave malattia, che l’ha costretta per lungo tempo all’isolamento. Ciò ha determinato una riflessione sul corpo sfociata infine, da un punto di vista creativo, nelle sue celebri Body Extensions. E’ giusto dire che, con esse, lei voleva da un lato esprimere la vulnerabilità del corpo e dall’altro il desiderio di accrescerne mediante protesi artificiali le capacità sensoriali?
Sebbene indagato di volta in volta attraverso diverse forme espressive (film, sculture, istallazioni…), il tema della vulnerabilità del corpo e del potenziamento sensoriale è una costante del mio lavoro, tanto da essere presente anche nella mostra veneziana, a me dedicata, in corso nella galleria di piazza San Marco della Fondazione Bevilacqua La Masa.
Tuttavia, l’esperienza delle Body Extensions è stata unica e irripetibile: ha costituito un tentativo di “correggere” il corpo, amplificandone i sensi per dilatare le emozioni e dar vita ad un corpo nuovo, ad un differente e più intenso approccio con il mondo.
 
In questo contatto modificato con l’esterno, come è possibile, secondo lei, interagire con il pubblico e condividere con lui le proprie sensazioni?
Le mie opere sono concepite per il pubblico, ed è il pubblico che deve decidere se siano emozionanti o meno. Non posso “imporre” agli altri le mie sensazioni: i lavori che realizzo suscitano in ciascuno sentimenti diversi, indifferenza, partecipazione, addirittura repulsione. Non cerco di convincere lo spettatore ad aderire alla mia visione delle cose, gli lascio piena libertà interpretativa.
 
Una volta finita la performance, ne rimangono le tracce: film, video, foto, sculture. Che significato rivestono per lei? Sono solo dei documenti o possono mantenere nel tempo una propria carica emozionale?
Le mie creazioni – e le tracce che ne restano – riflettono la mia storia, la mia crescita artistica ed emotiva: ma, ancora una volta, spetta al pubblico interpretarle, valutare se possano comunicare suggestioni, se siano in grado di offrire una testimonianza.
 
Lei ha realizzato anche sculture-oggetto mobili, vere e proprie macchine dove il corpo umano è assente, ma dove c’è la volontà di produrre “vita” in ciò che è inanimato. E’ possibile vedere in questa sua produzione riflessi surrealisti e della stagione dell’arte cinetica?
Cerco influenze ovunque intorno a me, alla scoperta di ciò che può suscitare il mio interesse e stimolare i miei sensi. Ad esempio, sono stata molto attratta dal cinema italiano degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, così come dalle vostre opere liriche o dalla poesia di Pasolini. Ma non accetto di “etichettare” l’arte, di inserirla in categorie predefinite: “arte cinetica” è, a mio avviso, una definizione priva di significato, un mero tentativo di inserire noi artisti in “box”, rigidi e distinti l’uno dall’altro.
Un artista vuole semplicemente raccontare una storia, e per farlo può attingere a qualsiasi cosa, purché gli trasmetta un’emozione.
 
Scultura, installazione, pittura, performance, ma anche cinema, poesia, opera, teatro, moda… Lei ha affrontato tanti generi diversi, e sempre con esiti altissimi. Non si sente un po’ come un maestro del Rinascimento?
Ogni secolo ha prodotto grandi artisti, nella cui opera ciascuno può riconoscersi o rintracciare i propri ideali.
Quando si parla di Rinascimento, ad esempio, io penso subito a Michelangelo. Ma non per questo intendo paragonarmi a lui: ogni individuo – e dunque ogni artista – è una creatura unica.


Nelle sue opere è sempre presente una dimensione morale e civile. Ritiene che l’arte oggi conservi un suo valore politico, di denuncia e di testimonianza?
Alcune delle mie opere vogliono indubbiamente suggerire una riflessione su temi politici ed etici, ma non tutto il mio percorso artistico deve essere interpretato in questo senso. Certo, sono sempre stata sensibile ai problemi della Germania e i miei lavori ne hanno risentito, anche in maniera indiretta. In altri casi – cito gli Spiriti di madreperla di Napoli, con la preziosità degli anelli contrapposta ai teschi di ghisa collocati sul selciato di piazza del Plebiscito – ho voluto lanciare una provocazione alla società attuale per scuoterla dal consumismo e dalla vanità imperanti.
 
La mostra che si tenne  alla Fondazione Bevilacqua La Masa era intitolata Fata Morgana, una riflessione sulla necessità e sui pericoli dell’amore, sulla bellezza e sulla vanità. Vuole parlarcene?
Fata Morgana è un’illusione ammaliante e pericolosa, un’emozione che ti seduce e ti annienta, qualcosa da cui non è possibile fuggire. E’ la passione amorosa che si dissipa in se stessa e si smarrisce nella visione della libertà sconfinata oltre l’orizzonte.
In mostra vi erano pietre, ali con piume mosse da un meccanismo, dipinti, a segnare un percorso poetico e drammatico insieme. C’era pure una versione di Feathers Fingers, incentrata sull’illusione tattile. Una penna è attaccata a ciascun dito con un anello metallico, per far sì che la mano diventi simmetrica e sensibile come un’ala d’uccello, quasi si fosse all’improvviso disconnessa dall’altra, e mutata in un essere separato. Sfiorando il corpo con le piume, vi è la percezione del senso del tatto nelle dita, anche se in realtà esse non entrano in relazione diretta con il corpo stesso.
Una lente che ingrandiva la perla di una dama rinascimentale, alla ricerca della sua luce, guidava il pubblico verso la comprensione della bellezza e della caducità delle cose.
 
 
 
 
 

 
 
 
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