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Ricco è bello, il committente padovano di Giotto. Perchè la cappella non fu condanna del capitale


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di Sandra Baragli

Da sempre gli affreschi padovani di Giotto sono stati collegati al ricco e potente Enrico Scrovegni, che si riteneva li avesse commissionati per redimere i peccati di usura suoi e del padre, Reginaldo, e così salvarsi l’anima e guadagnare il Paradiso. In un recente saggio pubblicato da Einaudi (L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, 586 pagine, 65 euro), Chiara Frugoni offre però, attraverso numerosi indizi, una nuova immagine del personaggio.

Giotto, Enrico Scrovegni offre  alla Vergine il modellino della cappella, particolare del Giudizio Universale
Giotto, Enrico Scrovegni offre
alla Vergine il modellino della cappella, particolare del Giudizio Universale

La cattiva fama di Reginaldo ed Enrico – prestatori di denaro e potenti politicamente, e quindi invisi a molti – ebbe origine con Giovanni da Nono che, nella sua opera “velenosa e frammentaria”, composta intorno al 1318-25, parla delle famiglie di spicco della città, arricchendola di maldicenze riguardo allo Scrovegni. E Dante (amico e ospite della fazione opposta a quella degli Scrovegni, i Della Scala), un po’ dopo che la cappella era stata dipinta, pose Reginaldo nell’Inferno, tra gli usurai, contribuendo definitivamente a crearne l’immagine negativa.

In realtà, quando Enrico, ancora giovane, si accinse a commissionare a Giotto gli affreschi di quella che doveva inizialmente essere una piccola cappella privata affiancata allo splendido palazzo di famiglia, aveva certo in mente ambiziosi progetti politici: cosicché la cappella, con i suoi 700 metri quadrati di pitture, diventò una sorta di “manifesto di propaganda” attraverso il quale il committente si presentava generoso e prodigo con i propri concittadini.

Per questo motivo fu sua cura ottenere, già nel 1304 (data in cui i lavori, cominciati tra il 1300 e il 1302, erano evidentemente terminati), un’indulgenza di un anno e quaranta giorni per chi avesse visitato la chiesa durante le feste mariane, e di cento giorni per chi vi si fosse recato una settimana dopo di esse, fatto che dà la misura delle relazioni e dell’ambizione del committente.

Nessuna traccia di pentimenti o sensi di colpa appare nel testamento di Enrico, dove anzi egli si mostra attentissimo al futuro della cappella, esigendo che vi sia tumulato il proprio corpo (il sepolcro sarà opera di un altro “modernissimo” artista dell’epoca, Giovanni Pisano), e affidandone la custodia e la conservazione ad una comunità religiosa. Non a caso Enrico Scrovegni si fa ritrarre tra gli eletti nel Giudizio Universale nella parete ovest, fiero di aver edificato a sue spese il luogo di culto, di cui offre alla Vergine il modellino.

Numerosi sono i messaggi veicolati dagli affreschi, sempre attenti a collocare in una luce positiva il valore pecuniario, a partire dalla descrizione delle vicende di Anna e Gioacchino, i genitori di Maria premiati da Dio perché facevano buon uso del denaro, dandone una parte in carità; od ancora, l’aver omesso di rappresentare le monete dei cambiavalute ne La cacciata dei mercanti dal tempio, o la scelta di opporre a Karitas, nella raffigurazione dei Vizi e delle Virtù, non Avaritia ma Invidia.

Giotto, a cui si attribuisce pure una canzone contro la povertà (“Molti son que’ che lodan povertate…”), fu esecutore magistrale del programma voluto dal committente: un committente per nulla pentito, come si diceva, ma orgoglioso del suo splendido dono giunto fino a noi e che ogni volta ci riempie di ammirato stupore.

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