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Roberto Longhi, sguardo sul Moderno


di Giovanna Galli

La Loggetta Lombardesca di Ravenna, sede del Museo d’Arte della Città, ospita la grande mostra: “Da Renoir a De Staël. Roberto Longhi e il moderno”. Attraverso un articolato percorso espositivo che propone complessivamente circa duecento opere appartenenti a un secolo di arte europea, dagli Impressionisti francesi fino al secondo dopoguerra inoltrato, vengono messi a fuoco i nodi tematici che hanno segnato la linea di pensiero di Roberto Longhi, lo studioso che è stato una delle voci più geniali della storiografia artistica contemporanea. “Stile” ha intervistato il curatore della rassegna, Claudio Spadoni.

s_10Questa mostra si caratterizza per l’originalità del percorso espositivo: una cospicua selezione di opere proposte non secondo una logica cronologica o geografica o tematica o stilistica, bensì attraverso una rivisitazione dei nuclei di riflessione che hanno caratterizzato l’elaborazione del pensiero longhiano. Vuole spiegarci come è nato questo progetto e quali sono state le difficoltà che avete dovuto affrontare nella sua realizzazione?
L’idea nacque durante un ciclo di lezioni che tenni qualche anno fa, quando proposi ai miei studenti un corso monografico appunto dedicato a Longhi e ad alcuni suoi interessi nei confronti dell’arte moderna e contemporanea. Allora ne parlai a Mina Gregori, la presidentessa della Fondazione di Studi e di Storia dell’arte Roberto Longhi di Firenze. e ad Andrea Emiliani, che all’epoca ricopriva la carica di soprintendente a Bologna, i quali aderirono entusiasticamente. Da quel momento abbiamo lavorato per radunare un comitato scientifico che da un lato garantisse una larga rappresentanza di allievi diretti ed indiretti di Longhi, studiosi cioè che collaborarono con lui o che in ogni caso seppero raccogliere appieno il suo messaggio, e dall’altro studiosi di una generazione successiva, che testimoniassero il persistere dell’interesse verso Longhi dei più giovani. Sono seguiti tre anni di lavoro molto intenso, caratterizzato da un dibattito serrato riguardo a quali dovessero essere le linee e gli orientamenti attraverso cui selezionare gli autori e le opere da proporre, a partire dagli Impressionisti, fino agli anni Sessanta, periodo in cui la partecipazione militante alla critica di Longhi (che morì nel 1970) venne via via meno.
L’approccio di Roberto Longhi allo studio dell’arte fu un approccio sostanzialmente formalista. Vuole spiegarci cosa significa?
Questo è un punto molto importante: il metodo introdotto da Roberto Longhi fu assolutamente innovativo. Egli dichiarò infatti apertamente che intendeva occuparsi della storia dell’arte attraverso uno sguardo critico, abbandonando ogni impostazione teorica o filosofica, in un continuo scambio tra passato e presente. La sua fu una scelta molto discussa: occuparsi di critica figurativa pura, valutando tutte le altre componenti, storiche e culturali, come diversivi, come appendici improprie. Per Longhi tutto ciò che contava era la realtà formale delle opere, tanto che, ad esempio, scrivendo un saggio dedicato a Mattia Preti, dopo avere concluso la sua analisi, propose come unici dati di tipo storico le date di nascita e morte del maestro: 1613-1699. E ancora, egli considerava ogni deviazione filosofico-letteraria, come quella di movimenti quali il Simbolismo o il Surrealismo, come la principale componente negativa di un certo tipo di arte moderna: un eccesso di speculazione intellettualistica poteva minare le basi della sovranità dell’arte. In questa visione rientrava la sua interpretazione dell’arte contemporanea come prolungamento della cultura visiva del passato. Attraverso la sua formidabile formazione, che lo aveva visto studiare con storici dell’arte eminenti come Toesca e Adolfo Venturi, Longhi maturò precocemente la facoltà di intendere l’arte moderna attraverso l’eccezionale conoscenza di quella del passato. E del resto, in tutti i suoi saggi dedicati ai grandi maestri storici nomina gli artisti contemporanei: così individua in Courbet l’erede del realismo caravaggesco, in Renoir un parallelismo con i cinquecentisti veneti, primo fra tutti Tiziano, nella fermezza metafisica di Seurat la sintesi della lezione di Piero della Francesca.
Entriamo nel merito della mostra. Il percorso espositivo si apre con gli autori dell’Impressionismo. Sotto quale segno nacque l’incontro di Longhi con la pittura d’Oltralpe?
L’incontro rivelatore con la pittura francese, avvenuto alla Biennale veneziana del 1910, quando Longhi era solo ventenne, si caratterizzò come un’autentica folgorazione nei confronti degli Impressionisti, in particolare di Renoir (che fu l’artista che più lo interessò) e di Courbet. Abbiamo così ritenuto di aprire la mostra proprio testimoniando tale momento, attraverso opere magnifiche, anche di Bazille, Boudin e Cézanne. Di quest’ultimo proponiamo ad esempio uno straordinario dipinto degli anni Settanta, periodo che coincide con il culmine della sua stagione impressionista e in cui già si intravede la svolta geometrica.


Un interesse, quello per la pittura impressionista, che mostra un’apertura di Longhi all’arte europea.
Esattamente. Un’apertura che denuncia l’infondatezza della descrizione, data da alcuni, di Roberto Longhi come critico della modernità chiuso all’Europa. In verità egli aveva avuto rapporti con la critica francese e anche tedesca. E non è un caso che Longhi sia stato uno dei pochi in Italia, insieme a Tica e Martelli (il critico dei Macchiaioli, di cui Longhi apprezzava l’intelligenza sebbene non ne condividesse la benevola considerazione nutrita verso il Gruppo toscano), a intuire la portata rivoluzionaria dell’Impressionismo francese, individuando in esso l’avvio della Modernità. E ancora, quando nel 1948 fu chiamato alla Biennale veneziana, egli volle con forza la mostra sull’Impressionismo, riconoscendo la gravità del fatto che nel nostro Paese per tutta la prima metà del secolo esso fosse stato in qualche modo dimenticato. L’indagine sui francesi si allarga poi nella sezione dedicata agli esiti del Post-Impressionismo, spingendosi fino ai fauve. Proponiamo qui opere molto significative di Derain, Dufis, Vallotton, Bonnard, Vlaminck e uno stupendo Matisse che arriva dal Centre Pompidou.
Si passa poi al Futurismo, in quell’intreccio di interessi che Longhi andava via via definendo…
Nel 1913 Longhi che, ci tengo a sottolineare, aveva allora soltanto ventitré anni, iniziando una stagione come militante polemista, scrisse un saggio molto “futurista” sul Futurismo, divenendo uno dei massimi fautori del movimento. Particolare attenzione rivolse a Boccioni, che considerava l’unico grande scultore moderno. In verità furono davvero pochi gli scultori che meritarono il suo apprezzamento. In questi anni si assiste all’avvio di quell’acuta propensione filologica che lo conduce a rintracciare i rapporti tra antico e moderno. Quando, ad esempio, sul volgere al termine della prima guerra mondiale, Carrà e de Chirico si separarono dal movimento futurista per porre le basi della metafisica, ecco che Longhi individuò lucidamene, soprattutto nel primo, la riproposta dei grandi valori figurativi della tradizione.
L’impatto con la metafisica di de Chirico fu però polemico.
In effetti il saggio “Al dio ortopedico”, scritto nel 1919 in occasione della prima personale del pittore, volle essere da parte di Longhi un’autentica stroncatura, ed è così che viene solitamente letto; ma si tratta anche di un pezzo critico di eccezionale acume, insuperato per modernità, con il quale di fatto il nostro innalzò una specie di gigantesco monumento alla metafisica dechirichiana, offrendone una lettura interpretativa strepitosa. Fondamentalmente Longhi voleva affossare de Chirico per quell’avversione di cui ho già accennato verso una pittura che risentisse troppo di un sostrato filosofico o letterario.
Molto caro a Longhi è stato invece il paesaggismo piemontese. Quali autori proponete a testimonianza di questo?br> Longhi nutriva molto interesse nei confronti di quei pittori italiani conosciuti appunto come i “paesisti piemontesi”: Fontanesi, Avondo, Delleani e Reycend, ai quali riconobbe il merito di avere introdotto in Italia uno sguardo verso il paesaggio per molti aspetti vicino a quello impressionista. In mostra vi è un’intera sala che ospita le opere di questi autori che appartennero alla sua collezione personale, successivamente donati alla Galleria d’Arte moderna di Torino. Ricordo, in proposito, che i dipinti in mostra sono stati tutti scelti fra quelli che gli appartennero o che egli nominò esplicitamente nei suoi scritti.
Per quel che riguarda il periodo compreso fra le due guerre, proponete una serie di stanze monografiche…
Questo periodo coincise con gli anni romani di Longhi (1920-1934), quando frequentò gli artisti che si radunavano intorno al Caffè Aragno, e quindi proponiamo le opere di Socrate, Melli, Donghi, Broglio, ovvero gli autori individuabili come i protagonisti del recupero dei valori della classicità definito “realismo magico”. Nel 1929 Longhi scrisse un saggio dedicato alla Scuola di via Cavour, cioè a Scipione, Antonietta Raphael e Mafai (di cui proponiamo complessivamente dodici opere): in loro Longhi, con un’altra delle sue felici intuizioni, seppe cogliere in poche righe tutto il piglio, la vivacità, l’estro, la fantasia quasi barocca. Giungiamo poi alle sale monografiche dedicate agli autori che Longhi predilesse o con i quali era legato da rapporti di amicizia: Morandi, Carrà, De Pisis e Maccari, pittore che gli fu particolarmente caro.
Sciltian, Klee, Berman, Kandinskij sono presenze che testimoniano ulteriormente la complessità delle letture di Longhi, così come il controverso e significativo rapporto con Picasso è testimoniato dalla presenza del “Ritratto di donna” del 1938. Ci dica qualcosa in proposito.
Giungendo al dopoguerra si assiste all’incontro fondamentale con Picasso. Pur avendo annotato moltissimo sul maestro catalano, Longhi non pubblicò nulla su di lui: fino agli anni Trenta ne parla addirittura male, poi nel 1953, rovesciando le carte, lascia appunti positivi che testimoniano da parte sua il riconoscimento della grandezza del pittore (di cui in mostra proponiamo appunto il “Portrait de femme”, che giunge dal Centre Pompidou). Altro importante confronto che suggeriamo è quello con l’astrattismo, in particolare con gli unici tre autori che meritarono l’attenzione positiva di Longhi: Klee, di cui in più occasioni scrisse che “la sua arte poteva essere scelta a occhi chiusi”; Kandinskij, che invece affianchiamo a Magnelli, proprio come Longhi avrebbe voluto. Vi è poi una sala dedicata alle “Teste” di Martini, che insieme a Leoncillo, di cui abbiamo dieci pezzi importanti, furono tra quei pochissimi scultori apprezzati da Longhi. E poi si prosegue con altre importanti presenze: da Morlotti, a Moreni, a De Staël, a Guttuso. Di quest’ultimo abbiamo un capolavoro, “La spiaggia”, che a Longhi ricordava “La grande Jatte” di Seurat. Sono questi i protagonisti degli anni in cui il nostro dismette la sua attività militante critica, e con cui dunque chiudiamo il percorso.