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Sai cos'è esattamente l'alchimia? In poche righe la spiegazione. Il rapporto con la pittura


Il concetto e i fini dell’alchimia erano tenuti velati dagli alchimisti stessi che non parlavano mai esplicitamente – anche nei libri – di fini e di procedure, utilizzando sempre un linguaggio simbolico. Oggi, pertanto, risulta ancora assai difficile trovare una spiegazione chiara del fenomeno. Considerato però l’uso frequente delle immagini per alludere al processo, la storia dell’arte e l’iconologia sono chiamate, in prima linea, ad esaminare il mondo alchemico che, grazie alle illustrazioni e ai dipinti appare molto chiaro. Abbiamo chiesto a Maurizio Bernardelli Curuz, che ha lavorato anni sull’iconografia e sull’iconologia alchemica, di offrirci una sintesi diretta, didattica ed efficace del fenomeno.

Autoritratto di Beccafumi.Domenico di Jacopo di Pace, detto comunemente il Beccafumi o, più in antico, Mecherino (Monteaperti, 1486 – Siena, 18 maggio 1551), è stato un pittore e scultore italiano. Tra i più importanti e riconoscibili fondatori del cosiddetto manierismo, fu anche, accanto al Sodoma (che pure era forestiero), l’ultimo artista di grande influenza della scuola senese. I capelli sulla fronte. pettinati – come pare, non casualmente – a forma di corna potrebbero conformarsi all’immagine di Mosè, considerato il fondatore dell’alchimia

Michelangelo Buonarroti, Mosé. Le corna sul capo del Mosè, tipiche della sua iconografia, sono probabilmente dovute ad un errore di traduzione del Libro dell’Esodo (34-29), nel quale si narra che Mosè, scendendo dal monte Sinai, avesse due raggi sulla fronte. L’ebraico “karan” o “karnaim” – “raggi” – potrebbe essere stato confuso con “keren” – “corna”. Per la prima volta, con questo breve saggio, si mette in relazione la pettinatura di Beccafumi con il mondo alchemico e con le “corna” di Mosè, ritenuto il fondatore dell’alchimia.

di Maurizio Bernardelli Curuz
L’alchimia è una protoscienza, che nasce nella fusione di conoscenze metallurgiche e filosofiche ebraiche e arabe, entrate poi in contatto con il mondo ellenistico e successivamente diffusa in Europa. A livello europeo i principali alchimisti furono i francescani – per qualità e diffusione della pratica – proprio per una visione del cosmo, insita nel pensiero francescano, che non condannava la materia. Il fine nobile e alto dell’alchimia non è tanto trasformare i metalli vili in oro – questa avrebbe dovuto essere solo una delle molte ricadute della ricerca e spesso l’oro è usato come simbolo di elevazione a Dio – ma di giungere, attraverso processi di depurazione, frantumazione, evaporazione, sublimazione all’individuazione e alla cattura della quintessenza. A quei tempi, come ben sappiamo, gli elementi riconosciuti come categorie fondamentali della materia erano quattro: terra, acqua, aria e fuoco. Gli alchimisti postulavano l’esistenza di un quinto elemento, un’energia potentissima che aveva provocato la nascita dell’universo attraverso l’azione creatrice di Dio e che restava imprigionata nella materia. Si riteneva che questa quinta realtà dell’Universo fosse di per sé una potente energia divina, presente in ogni sostanza – e pertanto nei quattro elementi – ma in quantità limitate. Per avvicinarsi al pensiero creatore di Dio era pertanto necessario attivare a processi che consentissero di trasformare una grossa quantità di materiale, spesso ignobile, in un’essenza concentratissima. La quintessenza non solo avrebbe consentito la conoscenza assoluta del cosmo, ma avrebbe permesso – si riteneva, a quell’epoca – di guarire le malattie, di modificare la realtà e, non ultimo, di trasmutare, in base al mutamento di quelli che oggi chiamiamo numeri atomici, ogni sostanza in oro, considerato un metallo eterno e incorruttibile. In alcuni testi antichi pietra filosofale e quintessenza sembrano sinonimi; ma c’è da supporre che la pietra filosofale fosse, in realtà, il contenitore finale dell’energia ricavata dai processi alchemici. Si riteneva che, usando la quintessenza imprigionata nella pietra filosofale, tutto fosse possibile: modificare gli elementi, ridare la vita ai defunti, diventare immortali, produrre oro da materiali di scarto e avvicinarsi alla mente di Dio, individuandone il pensiero fisico e matematico. Molti ricercatori furono attratti soprattutto dall’aspetto mercantile della presunta possibilità di produzione dell’oro. La classe dirigente – in un periodo compreso soprattutto tra il 1200 e il 1600 – allestì e finanziò laboratori alchemici. Disporre di un laboratorio alchimistico finalizzato a produrre nuove armi e oro significava, al di là degli scarsi risultati raggiunti, diffondere notizie di disinformazione quali il ritrovamento della quintessenza. Un’occulta pubblicità fondamentale a livello di deterrenza, perchè intimoriva gli avversari con l’allusione ad armi segrete. A questo sembra ricondurre la cosiddetta Allegoria dell’immortalità di Giulio Romano che, in realtà è un quadro alchemico, prodotto, probabilmente per mettere a conoscenza avversari e nemici dell’alto livello delle pratiche di ricerca svolte nello Stato mantovano.
Lo schema interpretativo dell’Allegoria dell’immortalità elaborato da Maurizio Bernardelli Curuz

 
L’alchimista procedeva, attraverso percorsi che si differenziavano ma che, nella pratica consistevano nel raccogliere da materiali poveri – pietre e materiale putrido, la base per la preparazione dell’Opera al nero – dopo frantumazioni, fermentazioni e calcinazioni – il fuoco calcinatore portava all’opera al bianco – l’essenza volatile della materia, ritenendo che quella fosse l’energia nascosta e pertanto la quintessenza. Non può certamente sfuggire al nostro occhio, a questo proposito, un’analogia concettuale tra quintessenza ed energia atomica. L’invenzione dell’acquavite fu legata proprio all’alchimia. E ad un errore della stessa. Il liquore potente estratto dalle vinacce, attraverso apparecchiature di vetro o metallo, non era quintessenza – come ritennero i francescani, che l’avevano messa a punto – ma una semplice essenza alcolica, in grado però di avere effetti terapeutici come la disinfezione delle ferite o il temporaneo ristabilimento dei moribondi, che potevano così avere il tempo per confessarsi, oppure svolgere la funzione di rudimentale anestetico nel caso di operazioni chirurgiche.
Giorgione, I tre filosofi, tra il 1506 e il 1508, olio su tela, 123,5×144,5 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Giorgione, I tre filosofi, tra il 1506 e il 1508, olio su tela, 123,5×144,5 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum

L’alchimia geometrico-matematica era una branca della alchimia che intendeva il linguaggio di Dio come un’espressione geometrico-matematica. Per questo lavorò molto alla cosiddetta quadratura del cerchio, che significa la trasformazione di un cerchio in un quadrato. Il cerchio conteneva, a giudizio dei prischi filosofi – cioè gli alchimisti – il principio divino. Il quadrato era la terra, cioè il mondo ordinario. Riportare il cerchio alla forma del quadrato avrebbe permesso di ricavare un numero potente, una quintessenza ottenuta attraverso una formula, forse in grado di produrre l’energia creatrice di Dio. La quadratura del cerchio – che oggi sappiamo geometricamente impossibile, se non per approssimazione – impegnò numerosi studiosi, tra i quali Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci che si allontanò diversi mesi dalla pittura per risolvere quel problema.
L’alchimia spirituale è invece la progressiva elevazione del proprio corpo a uno stadio angelico. Si riteneva che nessun alchimista, mosso da avidità, potesse raggiungere il pensiero matematico fisico di Dio. Pertanto l’alchimia spirituale, intesa come sublimazione di se stessi, era alla base delle pratiche alchemiche, ma ebbe anche uno sviluppo autonomo, come miglioramento del corpo e dell’anima, attraverso la meditazione, la preghiera, l’emendamento degli errori, l’imitazione di Cristo, il fuoco dello spirito, la calcinazione del peccato e il ritrovamento dell’essenza di Dio nascosta nell’anima.
Uno dei motivi per i quali l’alchimia era avvolta dal mistero era costituito dalla necessità di impedire l’accesso a formule che potevano essere usate, da malintenzionati, in modo contrario ai principi dell’alchimia stessa.
Alcuni pittori, notoriamente, furono alchimisti, mentre uno stuolo di ottimi illustratori lavorò alla preparazione delle tavole dei libri di alchimia. Giorgione dedicò all’alchimia i Tre filosofi, trasformando il quadro in una tavola sapienziale. Parmigianino sarebbe addirittura andato in rovina sia per le spese dell’acquisto di materiali che per il mancato rispetto di contratti per la stesura dei dipinti, impegnato com’era a inseguire il sogno della pietra filosofale. Anche il Beccafumi fu certamente un alchimista ed elaborò anche incisioni che descrivevano la Grande opera. Leonardo, come abbiamo visto, operò in direzione dell’alchimia spirituale e matematica. Arcimboldo, che lavorava nella corte alchemica di Rodolfo II di Praga, si rivelò vicino, attraverso i suoi volti in cui il tutto rivela l’Uno, al pensiero ermetico, pitagorico e neoplatonico, che sostenne le ricerche alchemiche.
Beccafumi, come dicevamo – oltre ad essere citato come alchimista da Vasari – realizzò sul tema un gruppo di xilografie forse illustrare il “De Pirotecnia” di Vannoccio Biringucci.
Fortemente contestata dalla Chiesa romana, ridicolizzata da Dante come bassa forma di truffa, l’alchimia iniziò un declino netto e l’avvio di un segreto percorso parallelo, dopo l’avvento della scienza galileiana e del pensiero cartesiano.

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