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Sandro Chia – Intervista e quotazioni gratis


sandro chia

di Enrico Giustacchini

Prosegue il nostro viaggio fra temi e protagonisti di uno dei più significativi fenomeni dell’arte italiana ed internazionale degli ultimi decenni: la Transavanguardia. Dopo Enzo Cucchi – intervistato lo scorso mese -, il vicedirettore di “Stile” incontra Sandro Chia.

1_1Lei ha sostenuto che è molto più “rischioso”, oggi, dipingere – affidarsi cioè alle tradizionali e consolidate modalità espressive – che praticare le variegate strade legate al “nuovo”, concetto che nella sua elaborazione mitica ha solcato in profondità il percorso dell’avanguardia ma, più in generale, della cultura occidentale. Rischioso anche perché diviene ad un certo punto inevitabile riaprire comunque la porta sulla storia e sulle sue icone, da affrontare però con una sensibilità trasfigurata… 

Non è tanto, la mia, una rivendicazione della pittura in sé, ma della possibilità di fare ancora pittura (non si è mai smesso: la pittura accompagna il destino dell’uomo, è fondamentale come il cibarsi, od il procurarsi un ricovero). Dipingere è un po’ come ritrovare le proprie radici. Poi si arriva alle considerazioni di tipo storico: si vuol verificare come praticare se stessi in una società che ha una sua storia (e non mi riferisco ad un’evoluzione in senso darwinistico, verso una sublimazione qualitativa: io penso che il tempo sia circolare, anzi spiralico). Fare il punto è arbitrario: ogni volta che si abbozza un discorso sociologico, lo stesso viene sconfessato subito dopo. La pittura è uno di quei territori spirituali, mentali e anche fisici che trovo rassicuranti – consente a noi stessi di collocarci nella dimensione più originale, primordiale, vicina all’essenza – e al tempo stesso inquietanti: grazie ad essa ci si sente a casa, ma in una casa dove l’appartenenza deve essere sempre rinegoziata. Ogni nuovo quadro è una nuova avventura.

Il quadro va aggirato, corteggiato; va ingannato, pure. In esso si mischiano memorie, sì, ma anche i disparati elementi della vita di tutti i giorni. E’ una ridefinizione dell’intero apparato logico e percettivo, che nella quotidianità diamo per scontato; nella pittura scopri mille vie, sempre differenti, e sconfinate.
Ci possiamo ricollegare, qui, al concetto a lei caro di “pittore naufrago”, il cui gesto di dipingere è assimilabile al vagare fra innumeri difficoltà sopra quell’abisso che è la tela bianca, nell’azzardo di un viaggio senza ritorno: consci – come lei ha affermato – che da quell’abisso “emerge un altro mondo, un mondo, un mondo diverso dal nostro”, da scoprire in libertà.
Ed aggiungerei che – semmai – c’è una novità nella pittura: non più la pittura per la pittura, ma la pittura per il pittore, il quale assurge al ruolo di protagonista di una condizione umana straordinaria. Un rapporto esistenziale, dunque. La “bella pittura”, i capolavori sono già stati fatti. La situazione è molto complessa, ma quando dipingi devi saper creare il vuoto intorno a te.
Vittoria Coen ha scritto, in un saggio a lei dedicato: “Non c’è qui la disperazione di certe avanguardie del Novecento, la rabbia di un violento espressionismo di prima e seconda generazione. Non c’è più l’atmosfera, evidentemente, e ogni volta che si vogliano instaurare con Chia confronti molto serrati e parentele molto strette l’artista sfugge felicemente ad ogni riduzione”.
Esiste un’interpretazione esterna dell’immagine. L’immagine ha una sua strategia di presentazione, ma non va mai letta in maniera superficiale. Anche in altre forme espressive, addirittura nell’arte decorativa, si può partire dall’idillio per arrivare alla tragedia: ciò è inevitabile, poiché la tragedia è insita nella condizione umana. Affermare che un quadro di Munch è più tragico di un quadro di Poussin è superficiale. Io ritengo però che non si debba ricorrere a tali “categorie” per sfuggire al vero senso del lavoro. Non c’è mai niente di ovvio: è questa la sfida mentale. Decidere di fare il pittore invece – che ne so – dell’impiegato di banca, dà inizio a una catena di cause-effetto. La pittura è una macchina per pensare: a partire dalle sue forme più elementari, perfino nel disegno di un bambino. Oggi è più difficile accedervi: c’è un’inflazione di immagini, probabilmente perché non si vuole che pensiamo. L’ambito in cui opero ha le sue responsabilità. Consideriamo l’arte concettuale, dove il pensiero è preconfezionato, minimalizzato. Io sostengo invece la necessità di un’arte a rischio e pericolo dell’artista; no alle scorciatoie, no all’essenzialità (mi riferisco all’essenzialità dell’effetto, naturalmente; l’essenzialità “interna” alle immagini va benissimo). E’ questo l’aspetto più interessante della pittura; lo è sempre stato, fin dall’inizio, fin da quando il dipingere era tramite e racconto di divinità e magie.
A proposito di immagini. Lei ricorda: “Nella quiete dell’infanzia, scorgevo le immagini e ne venivo scavato e coinvolto. Rammento che cercai protezione e aiuto contro il loro piacere. Ma sconfitto e solo, pregavo che almeno mi fosse dato di diventare qualcosa senza imitare nessuno… Il folletto d’allora fa sorridere e pensare la maschera attuale”.
E’ il potere ambiguo e ambivalente dell’immagine, ispiratrice di volta in volta di fascinazione e di terrore. Di fronte ad essa non si deve mai essere pigri, né esercitare autodifese.

Tra riferimenti alla storia, e persino alla classicità, da un lato, e richiami al quotidiano dall’altro, come affronta Sandro Chia la spinosa questione degli influssi culturali? E crede alla distinzione tra la cultura cosiddetta “alta” e quella popolare, magari – come rileva Claudio Spadoni – da lei “ritrascritta in un linguaggio diversamente carico di simboli”?



Uso quello che so delle differenti culture. Mi interessa la cultura quando conferma ciò che già conosco. Mi interessa meno e non la comprendo quando cerca di smitizzare (magari se stessa) e condurci altrove. Trovo francamente fastidiosa una certa forma culturale che porta a sostenere, poniamo, che James Bond è uguale a Nietzsche. Va bene “popolarizzare”, però… Bernini scaraventava Dio per terra ma, al contempo, innalzava la terra al cielo. C’è in giro, assai diffusa, questa pseudoironia che vuol dirci che tutto si equivale, che non c’è nulla da capire. Woody Allen è meraviglioso da tale punto di vista. Certo, poi abbiamo il problema inverso, della “cultura ai colti”, di una cultura cioè che finisce per diventare asfittica. In ambito pittorico, prima era la “povera” avanguardia ad interloquire con l’accademia. Oggi l’accademia non c’è più, e l’avanguardia ha il potere: cosicché oggi bisogna essere, forse, accademici, bisogna essere i “negri” della situazione.
Nel suo agire pittorico, mi pare di cogliere un ricorrente senso del gioco. Un gioco, peraltro, sempre condotto con grande serietà e rigore. Del resto, lei ha dichiarato in un’occasione di mettere “un po’ di allegria nella lotta contro il brutto”.
Giocare è la tecnica più efficace per ottenere quello spirito, quel sense of humour, quel “sorriso filosofico” che cambia l’espressione del visi (la Gioconda è la perfetta esemplificazione del sorriso da esibire quando si è di fronte ad un quadro). La prova del nove dell’arte è questa: un gioco dove vincere o perdere non fa differenza, un gioco che produce altri giochi, che rivitalizza, che ridesta la voglia di divertirsi. Il sorriso è a volte anche tragico, ma non bisogna prendere per i sentieri della tristezza e della seriosità, che sono il contrario esatto dell’arte. Ecco, l’avanguardia spesso è stata ed è seriosa, indottrinante: ti dice quel che devi fare, si scandalizza se usi il colore, non sa che cosa sia l’umorismo. Pensiamo all’opprimente pesantezza dei musei contemporanei. Manca, ancora una volta, il bambino di Andersen che grida a tutti: “Il re è nudo!”.

Sandro Chia (Firenze, 1946) è uno dei maggiori artisti italiani di oggi, e la sua produzione è conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo. Dopo aver operato, negli anni Settanta, in ambito concettuale, avvia con Enzo Cucchi e Francesco Clemente l’esperienza della corrente definita da Achille Bonito Oliva come “Transavanguardia”, ed a cui aderiranno pure Mimmo Paladino e Nicola De Maria. Sandro Chia – che vive fra New York e l’Italia – ha esposto nei principali musei europei ed americani. Attualmente è in corso una sua mostra al Museo archeologico di Firenze; in autunno è in programma invece una rassegna dei lavori del maestro a Miami, in Florida.

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