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Schad, l’antico nuovissimo



di Enrico Giustacchini

Christian Schad ha solo diciassette anni quando – è il 1911 – si iscrive all’Accademia di Belle arti di Monaco di Baviera. “Sei mesi dopo – ricorderà – avevo già compreso che non ci sarei rimasto a lungo”. Il motivo lo spiegherà lui stesso: “Ho trascorso l’adolescenza subendo il fascino dei movimenti di rivolta, che suscitavano sentimenti di grande energia e vitalità spirituale… Me ne andai perché ero convinto che avrei avuto il diritto di fare qualcosa solo dopo aver capito che cosa fare”.

schad-apertura

Nel 1915, Schad si trasferisce in Svizzera, ed entra in contatto con i dadaisti. Conosce Arp, Ball, Picabia. Presto diviene egli stesso una figura di primo piano del movimento: dipinge, esegue xilografie ed assemblage in legno policromo, fonda con Walter Serner la rivista Sirius. Ed inventa – in anticipo rispetto alle analoghe sperimentazioni di Man Ray – le celebri schadografie.
Questa tecnica – a metà tra la fotografia e il collage – prevedeva che la pellicola venisse impressionata dalla luce del sole, direttamente, senza l’ausilio cioè della macchina fotografica, dopo che sulla pellicola stessa erano stati posti ritagli di carta ed altri materiali, i quali, impedendo o filtrando il passaggio della fonte luminosa, davano origine a particolarissimi effetti di chiaroscuro. La paternità del termine schadografia (non tutti lo sanno) è da assegnare a Tristan Tzara, che giocò sull’assonanza tra il nome dell’artista tedesco e la parola inglese shadow, ombra. Il giovane Christian non è però soddisfatto dei propri successi. Non lo è per nulla. Fa i conti con la coscienza, che gli rammenta ad ogni occasione “il diritto di fare qualcosa solo dopo aver capito che cosa fare”. Inutile fingere. Inutile cercare scorciatoie. Abbastanza disperato, Schad decide di seguire le orme di tanti suoi colleghi, di oggi e di ieri, illustri e no, curiosi od inappagati, ma tutti accomunati dall’irresistibile attrazione del “viaggio in Italia”. Il Nostro arriva nel Belpaese nel 1920, e ne rimane folgorato. Vi tornerà nel 1922 per restarvi fino al 1925, sempre studiando la pittura classica. Quando riprende in mano pennelli e tavolozza, è un altro artista. Nessuno potrebbe riconoscere nell’autore dei suoi quadri attuali il Dada provocatore di un tempo in verità non troppo lontano. “Io ho cercato a lungo – scrive -. E anche a me è successa una cosa che è successa a molti prima di me, e di cui non mi vergogno affatto: l’Italia mi ha aperto gli occhi sui miei desideri e le mie possibilità. Perché da nessun’altra parte c’è tanta differenza tra arte e kitsch come in Italia”.
Sì, adesso Christian ha davvero capito, “conoscendo non solo la vita nei suoi infiniti aspetti, ma pure gli stili, che sono un riflesso di quegli aspetti. E così, grazie ad una svolta in entrambi i campi, nella vita e nello stile, mi sono arrogato il diritto di dipingere come dipingevano coloro che ancora oggi sono considerati dei maestri”.
E’ a partire dal 1925, anno in cui lascia l’Italia e giunge a Vienna, che Schad, come sottolinea Elena Pontiggia (La Nuova Oggettività tedesca, Abscondita), “definisce compiutamente il suo stile. Il disegno conosce allora una severa cristallizzazione, i contorni divengono implacabili, senza che nessuna mollezza del segno, nessuna fluidità della pennellata incrini più il blocco plastico della composizione. La luce perde ogni dimensione atmosferica e assume un valore mentale: un chiarore immobile e crudo inonda l’immagine, acuisce la qualità timbrica del colore, dà anche all’ombra la consistenza non di una macchia indistinta ma di un’esatta quantità matematica. Questa nitidezza abbagliante, però, non s’innesta su ideali puristi né su esperienze espressioniste, ma su un realismo più neutro, che si complica gradualmente di ascendenze antiche”.
Inizia a prender corpo una straordinaria galleria di ritratti. Ritratti della ricca borghesia, ma altresì fisionomie carpite ai bordelli e ai locali notturni di Berlino, dove il pittore risiede dal 1927, dopo aver divorziato dalla prima moglie, l’italiana Marcella Arcangeli.
Christian Schad guarda, innanzitutto, a Raffaello. “E’ troppo facile alzare le spalle davanti a Raffaello. Perché è così difficile saper dipingere bene”, dichiara, seppellendo con due sole frasi un passato di fiero avanguardista e probabilmente, nel suo giudizio, l’intera esperienza delle rivoluzioni d’inizio Novecento.
Tra le opere dell’Urbinate viste nella Penisola, profonda impressione aveva destato in lui la Fornarina. Di tale impressione troviamo traccia in molti ritratti della seconda metà degli anni Venti. Ne è un esempio Maika, del 1929. L’inquadratura a mezzo busto, la posizione di tre quarti e il candore della pelle rimandano al capolavoro raffaellesco, come rileva anche Benedetta Carpi de Resmini nel catalogo della mostra Volti nella folla (Skira). Tra l’altro, il dipinto è ambientato a Roma – sullo sfondo si vede la cupola di San Pietro -, e la modella, l’attrice Maria Spangemacher detta, appunto, Maika, era legata sentimentalmente all’artista che la effigiò, proprio come la vera Fornarina.
Una splendida opera dello Schad “rinascimentale” è pure Donna di Pozzuoli. “La tela – racconta Gabriella Roganti in L’eroe borghese, edito sempre da Skira – è invasa dal corpo gradevolmente opulento della giovane: il semplice ma elegante abito verde evidenzia le morbide rotondità e l’incarnato di porcellana di braccia e décolleté (grande attenzione viene posta dall’autore alla resa delle carni, attraverso la stesura di innumerevoli velature); il viso tondo e debolmente colorito è incorniciato da corti capelli corvini che solo in un punto sembrano concedersi il capriccio di un ricciolo ribelle.
Tuttavia – prosegue Roganti – sono quegli enormi occhi nocciola a dominare la scena. E non è fatto sporadico, perché in ogni ritratto di Schad, anche negli anni berlinesi, gli occhi sono come finestre aperte sui segreti dell’io, e su di essi è concentrata l’espressione del volto. I personaggi sono muti, con le labbra serrate: parlano mediante gli occhi, e in questo quadro, in particolare, ci parla una donna senza malizia, di un’ingenuità schietta, di una prorompente umanità”.
L’artista tedesco guarda a Raffaello, ma pure ai Manieristi, in primis al Bronzino, fratello maggiore nel dar vita a sequenze di visi algidi e dolenti, feroci e raffinati insieme. Pontiggia individua sorprendenti somiglianze, in tale contesto, tra il volto femminile “dal profilo ossuto e irregolare” in Autoritratto con modella (realizzato da Schad nel 1927) e quello “di analoga durezza del Ritratto di Laura Battiferri, la poetessa ‘tutta dentro di ferro e fuori di ghiaccio’ dipinta dal Bronzino”.
E un omaggio ad un altro sommo manierista, cioè al Pontormo, è forse riscontrabile nella frequente inclinazione del Nostro a vestire i personaggi dei suoi quadri di stoffe dalle intense trasparenze – è il caso della camicia con cui egli si effigia proprio nell’Autoritratto con modella; è il caso degli abiti delle due donne che compaiono ne Il conte St-Genois d’Anneaucourt, opera dello stesso anno -, alla stregua dei corpi velati affrescati dal Carrucci nella Deposizione di Santa Felicita a Firenze.
Christian Schad, l’ex studente d’accademia insofferente alle regole, l’ex dadaista dagli esperimenti temerari e dissacranti, ha trovato insomma alla fine la sua personale strada per la modernità. Ubriacandosi della bellezza della pittura classica, in un viaggio a ritroso nei secoli. Perché ha scoperto che il tempo, per un artista, può essere soltanto una convenzione. Perché ha avuto la conferma che “l’arte è antica. E l’arte antica spesso è più nuova di quella nuova”.