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Scipione, Licini e Cucchi. La regione feconda e bizzarra delle grandi Marche


marche
di Maria Teresa Benedetti
Una regionalità ideale, una feconda bizzarria, comune a tre protagonisti marchigiani dell’arte del Novecento, Scipione, Osvaldo Licini, Enzo Cucchi, fu indagata in una mostra (Il segno marchigiano nell’arte del Novecento, a cura di Ludovico Pratesi, Federica Pirani, Francesca Romana Morelli, Centro di Arti Visive Pescheria di Pesaro) attraverso opere accomunate dalla visionarietà di un segno perentorio ed eretico
Esistono fra i tre pittori magiche consonanze, individuabili nel forte senso di appartenenza alla comune terra di origine, nonostante l’inevitabile diaspora che li ha portati ad affrontare, oltre le Marche, il mondo.
Diaspora verificatasi molto presto per Scipione, che trasferitosi da Macerata a Roma fin dall’infanzia, rappresenta l’attaccamento dei marchigiani alla città verso la quale hanno sempre diretto lo loro fattive aspirazioni, subendo il fascino della grande patria dell’arte, ispiratrice di ogni avventura del pensiero. Una città del barocco e del sublime, trasfigurata dal pittore in maniera infuocata e febbrile. La sua Roma è quella del principe cattolico, del cardinal decano, degli angeli di pietra dei ponti sul Tevere, delle cupole di antiche basiliche, dominate dalla cortigiana, archetipo femminile in cui si annida, deformato, il segreto della donna.
L’artista avverte la corruzione del potere religioso nello scomporsi degli atteggiamenti solenni, in quel corrompersi della venustà, della magniloquenza, ne coglie l’elemento demoniaco.

Scipione (Gino Bonichi), Angolo di Collepardo (o Paesaggio a Collepardo), 1929, olio su tela, 44 x 44 cm, collezione privata
Scipione (Gino Bonichi), Angolo di Collepardo (o Paesaggio a Collepardo), 1929, olio su tela, 44 x 44 cm, collezione privata

Timbrato fortemente da una religiosità legata a quelle Marche dove il cattolicesimo ha avuto radici più profonde e ha resistito più a lungo anche nelle manifestazioni del culto e nelle consuetudini di vita, Scipione avverte drammaticamente il peso della colpa, da lui assimilato alla terribile tisi che lo corrode. Morirà a soli ventinove anni, invocando fino alla fine la salvezza secondo le formule della fede cristiana. “Iddio salvami, caccia i miei nemici, aiutami, perdona il tuo figliolo. Io non sono degno di te, ma voglio salvarmi… voglio dormire puro come il pane”. Un modo di identificarsi con il mondo dell’infanzia, nell’aspirare, con impeto straziato e sincero, alla salvezza attraverso la fede.
“Anche Scipione sono stato a rivedere, uno dei pochissimi che abbia qualcosa nel ventre” afferma Osvaldo Licini in una lettera a Giuseppe Marchiori, attratto da una pittura alimentata da fantasie infuocate.
Nato e a lungo vissuto nel cuore di un paesaggio che si estende fra colline e picchi appenninici, in vista dell’Adriatico e dei monti Sibillini, l’artista, dopo una vasta esperienza internazionale, elegge i luoghi della sua infanzia a testimoni dei suoi dialoghi con il creato. Il paese natale, Monte Vidon Corrado, diventa il centro della sua vita.
Temperamento ribelle, dotato di singolare, talora sfrontato, estro ironico, visitato miracolosamente dalle leggi della fantasia, egli ricrea nel suo isolamento immagini legate ad una natura cara agli eremiti e ai poeti, animata da presenze allarmanti e insieme stranamente domestiche. Tormentato dall’esigenza di individuare un suo linguaggio, vive in solitudine, intento a proiettare in un indistinto futuro voci e suggestioni nate dal contatto con le sue radici. La luce incontaminata, il senso dello spazio poetico aprono la via a creature astrali, definite poi dallo stesso artista “nostra dolcissima irrealtà”. Creature simbolo di una visione che ha per centro il cosmo, indicano una silenziosa scalata ad un cielo nel quale ogni accadimento si rivela metafora di una coscienza inquieta. L’Olandese volante, l’Amalassunta, gli Angeli ribelli sono frutto di un’immaginazione profondamente stimolata da quanto circonda il pittore.
Osvaldo Licini, Amalasunta occhio giallo, 1950, olio su tela, 21 x26,5 cm, Rovereto, MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Osvaldo Licini, Amalasunta occhio giallo, 1950, olio su tela, 21 x26,5 cm, Rovereto, MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto

Leopardianamente egli si interroga, alla ricerca del significato dell’uomo nel cosmo. In uno spazio allarmato, nel quale verifica le possibilità del colore puro, compaiono straordinarie invenzioni, paesaggi in cui l’argenteo enigma della luna brilla o si disperde, varca notti dell’anima, o alimenta costellazioni di immagini, suoni e luci, stazioni di una vita ricca di incessanti inquietudini. “Me ne vado un po’ svolazzando per conto mio nei cieli della fantasia, e così, di cielo in cielo, sono diventato un angelo abbastanza ribelle, con la coda insomma, e qualche volta mi diverto a morderla questa coda” egli afferma. Angeli dalle spalle possenti, dall’atteggiamento epico e araldico insieme, testimoniano, talora con uno sberleffo, la fecondità della ribellione.
“Licini è un’influenza sul piano morale – afferma Enzo Cucchi. – Era un bel tipo. Di lui ho solo un disegno. E’ una cosa molto bizzarra, esistenziale”: una piccola Amalassunta affida ad un segno trepido e bislacco un messaggio carico di poesia.
Qualcosa di comune circola fra i due artisti, il senso dell’enigma e la riluttanza a svelarlo, il dialogo costante con le radici, un’aspirazione a fondersi con l’esperienza del cosmo. Ma se Licini esprime talora fiducia nel valore del segno, per Cucchi esso è “momento folgorante, votato alla sparizione”. Le sue dichiarazioni trasmettono la sensazione di trovarsi in un gorgo pronto a inghiottire tutto, i segni corrono in preda ad un’accelerazione divorante, fagocitano le connessioni logiche, si affidano all’intuizione, irridono alle definizioni, privilegiano il mistero. E’ la crisi irrimediabile di una forma afferrata e pronta a disperdersi, la delusione nei confronti della bellezza, l’ambiguità del terreno nel quale l’artista si muove. La fuga delle immagini genera lampi di figure, iperboli di segni, che restituiscono, isolati, ingigantiti, brandelli di realtà.
Nel marasma dell’incendio creativo, il pittore avverte il bisogno di ancorarsi a cose note: “l’unica cosa che possiamo fare – io sono marchigiano e vivo a Roma – è parlare di una cosa che conosciamo”. Nelle tradizioni della sua terra, nei ricordi dell’infanzia, nelle immagini di luoghi familiari, Cucchi individua lo spazio in cui far vivere i propri fantasmi, sospinto dalla deriva della sua immaginazione. Ama l’eredità pagana e cristiana di Ancona, il mare e le drammatiche scogliere, la campagna di cui sembra palpare quasi fisicamente le linee, in successioni ora morbide, ora precipiti, quasi quinte erette a delimitare un mondo.
La solitudine notturna, l’abbaiare di un cane su un pendio, la sagoma di un uomo fra le ombre, sono immagini allusive alle radici contadine dell’artista, oltre che alla sua cultura e alla diretta partecipazione del suo inconscio. I motivi ricorrenti di animali domestici e selvaggi, teschi, teste e figure embrionali, soggetti marini e villaggi collinari sono dotati di significato archetipico. L’enfasi sull’iconografia locale riguarda l’ispirazione, ma diviene universale per la capacità di risonanza generata da un rapporto costantemente ribadito. Un dialogo rituale con la natura, un’idea dell’artista come sciamano, demiurgo di un universo originario, che assorbe ed esprime l’aura invisibile legata ad un mondo che rischia di apparire allucinato a chi non ne coglie la pregnanza di riferimenti.