di Giovanni Ranieri Tenti
Gianni Mercurio è curatore della mostra “George Segal, The Artist’s Studio”, aperta al Museo d’Arte contemporanea di Roma.
In cosa consiste l’importanza di questa mostra, e che obiettivo volevate raggiungere?
Il fine è quello di mostrare per la prima volta in Italia in uno spazio pubblico le opere di George Segal, uno dei più importanti artisti che gli Usa abbiano mai avuto; lo stesso taglio della mostra è piuttosto innovativo puntando, come da titolo, sulla “ricostruzione” dello studio nel New Jersey. Come non tutti sanno, Segal cominciò infatti in quello Stato la sua avventura creativa. Figlio di immigrati ebrei russo-polacchi, si scontrò presto con la loro mentalità, tanto da lasciare l’attività di allevatore di polli per quella incerta di artista. E proprio i locali che avevano ospitato l’allevamento divennero il suo primo studio.
Ci sono opere, in mostra, che riguardano questo periodo?
Sì, e sono alcune tra le opere più interessanti, di gusto prettamente “europeo”, legato a Matisse, Bonnard e ai Fauve: quello che amo definire “espressionismo figurativo”, importante per introdurre l’altro obiettivo dell’esposizione, ovvero dimostrare l’“estraneità” alla Pop Art. Una differenza palesata da quattro grandi tele e dai dipinti “inediti” che coprono il periodo dagli anni Cinquanta ai Sessanta, quelli che “nessuno comprava” e che segnano il passaggio alla scultura.
Per quanto attiene alla scultura, troviamo opere che tradiscono il suo bisogno di quotidianità, di legame al dato reale, alle origini?
Tra gli undici gruppi scultorei ne emergono tre a sfondo biblico che, attraverso l’occhio squisitamente “ebraico” dell’artista, evidenziano la necessità di un legame maggiore con l’attualità, con la realtà: un aspetto che la Pop Art affrontava in maniera più concettuale, troppo legata ad aspetti consumistici per soddisfarlo davvero. Prova di questo è l’interesse di Segal per il tema della morte, che solo Warhol affronterà apertamente con le sue “Sedie”. Interesse che l’opera “In memory of May 4” del 1970 rivela in maniera efficace; ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto, l’uccisione di manifestanti contro la guerra del Vietnam, doveva trovare una collocazione pubblica ma, scontrandosi con la ragione politica, venne “sistemata” in una sede meno scomoda. Qui il sacrificio di Isacco per mano di Abramo è riproposto con una causticità che tradisce, senza retorica, la diversa cultura religiosa e il forte legame con tutti gli aspetti che l’Umanità offre, un’attenzione al Mito e al modo in cui i suoi temi si ripropongono nella contemporaneità, come nel caso degli “Homeless”.
Esistono testimonianze tangibili del modo di operare di Segal e dell’evoluzione che si è verificata negli anni, anche dal punto di vista tecnico?
Proprio l’artista nel suo studio è il soggetto delle sessanta fotografie inedite scattate nel 1976 dall’allora giovanissimo Dino Pedriali, che lasciano intendere in maniera quasi didattica quale fosse il consueto modus operandi di Segal, avvicinando l’idea dello studio a quella di un’autentica factory. Emerge anche l’evoluzione del linguaggio formale-concettuale, con tre lavori degli anni Settanta d’ispirazione tutta italiana quali sono i “Roman’s cafè”, dove il cambiamento è nella reintegrazione del colore alla materia stessa con un’operazione scevra da interessi didascalico-descrittivi volta alla ricerca di un linguaggio completo. Influenza italiana che lo porta alla citazione di Masaccio – “Il ristorante italiano”, 1988 -, e confermata dagli stessi suoi maestri, che ne ricordano la passione per i film neorealisti. Ciò, tra l’altro, evidenzia nuovamente la distanza dalla Pop Art: Segal sosteneva che i seguaci di questo movimento non lasciassero in alcun modo trapelare nei loro lavori la dichiarata ammirazione per tale genere cinematografico. Dal punto di vista meramente tecnico, è importante la comparsa delle bende per ingessature rapide Johnson & Johnson, che imprimono una svolta decisiva per velocità e resa e che, dopo gli anni Settanta, portano Segal alla realizzazione di gruppi compositivamente complessi, dove questa poetica tanto affine alla tragica “scultura” pompeiana si spoglia della specularità realistica che il calco può offrire; perché, ed il senso della mostra sta proprio in tale concetto, Segal non vuole scindere fisicità e spiritualità come gli artisti suoi contemporanei: origine dell’opera è sempre il soggetto reale, ma il risultato finale è un estraniamento sia a livello spaziale che temporale dove, analogamente alla pittura di Hopper, il luogo fisico è appunto luogo spirituale. Importanti ed inediti – a cornice di un quadro già molto ricco – sono poi alcuni grandi disegni, a pastello nero, che costituiscono una sorta di testamento “affettivo” dell’artista: raffigurano, tra gli altri, la moglie, la madre, il fotografo Newman ed il critico Pierre Restany. Riconducibili agli ultimi cinque anni di vita dell’artista, spiccano per la qualità tecnica che sfocia in una sorta di pointillisme, il cui forte impatto visivo pare ricordare gli esordi di pittore innamorato di De Kooning, la cui presenza “aleggia” tangibile.
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