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Capire Giovanni Segantini – Montagne. L’analisi in breve di Annie-Paule Quinsac, massima esperta




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Stile Arte ripropone un proprio importante incontro con Annie-Paule Quinsac, massimo studioso al mondo dell’artista, curatrice del Catalogo Generale (1982) e della raccolta delle lettere (1985), nonchè di numerose mostre in Italia e all’estero. L’intervista, svolta su elementi strutturali, fu pubblicata nel febbraio 2001 dalla nostra testata, in occasione dell’apertura della mostra “Giovanni Segantini. Luce e simbolo. 1884-1899” tenutasi alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia

 

intervista di Beatrice Avanzi

Il simbolismo di Segantini, come emerge da queste opere, non fu mai “antinaturalista”, rimanendo, anzi, profondamente ancorato al dato naturale. Come riuscì a conciliare questi due termini?
Li conciliò perché erano una cosa sola nella sua psiche: egli vede la natura come “foresta di simboli”, e dunque la scelta del paesaggio dove vivere e dipingere determina la sua visione. Come i Tropici per Gauguin o Arles per Van Gogh, i Grigioni sin dal 1886 e l’Engadina, dal 1894 alla morte, furono, per lui, un’espansione del proprio Io. Non a caso Segantini scelse la Svizzera: renitente alla leva, non poteva tornare nel natio Trentino. L’emigrazione gli restituì l’alta quota, la luce del paradiso perduto della prima infanzia. In lui l’osservazione di alcuni, significanti, elementi del reale – e in particolare della luce – genera l’affiorare del suo essere psichico, che ci viene restituito nella nitidezza dell’immagine.

Fondamentale, in questo senso, è la resa della luce attraverso la tecnica divisionista. Come si accostò a questa tecnica, e cosa significò per la sua poetica?
Fu la scoperta della divisione del tono, cioè delle leggi ottiche che erano state molto discusse in Francia e in Europa dalla seconda metà dell’Ottocento, a permettergli di elaborare la propria visione pittorica. L’approfondimento di questo nuovo modo di concepire la pittura, tuttavia, fu reso necessario dal cambiamento di ambiente: dopo averlo confrontato con la luce cristallina e tersa delle Alpi, Segantini capì che ne poteva tradurre l’intensità soltanto tramite il colore, e ciò gli consentì di esprimerne la trascendenza. Nelle sue mani la luce diventa sinonimo della presenza del divino in natura.
A partire già da “Ave Maria a trasbordo”.
Sì, a partire da “Ave Maria a trasbordo”, che è il primo dipinto puramente divisionista, di un divisionismo molto empirico, spontaneo. Segantini è un intuitivo, sente la pittura nella materia, e la sensualità delle cose è per lui molto importante. Non parte dalla teoria: conosce la teoria e questo lo conforta nelle sue scelte, che sono però scelte emotive.
A contatto con la luce e la natura dell’Engadina la sua arte evolve dunque sempre più verso una visione “panteistica”. Può illustrarci questo percorso?
Ho voluto evidenziarlo attraverso le opere in mostra. Questo suo panteismo presenta affinità con il pessimismo di Schopenhauer, in quanto nei suoi dipinti animali ed esseri umani appaiono uniti in un comune destino di sottomissione alla natura. La fede segantiniana non celebra un Dio personale come quello della religione cristiana. Egli si allontana dalla tradizione cattolica, ma gli rimane una profonda religiosità che trova sbocco nella trasfigurazione della natura e della maternità, temi che informano la sua produzione e che sono, appunto, i due poli iconografici delle opere in mostra.

(Stile Arte, febbraio 2001)

NEL VIDEO: CON SEGANTINI SULLE MONTAGNE INCANTATE

 

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