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Andrea Mantegna – I volti nascosti nelle nubi e nei dipinti


di Claudio A. Barzaghi

Cè qualcosa di seducente nelle nuvole, e al tempo stesso di insidioso. Corpose, oniriche, scenografiche, appartengono però al mutevole cielo inferiore
– distante dalla perfezione immutabile dei Cieli – e perciò essenzialmente imprecise. E poi, senza vera forma e contorno, si sottraggono alle leggi della prospettiva lineare. Brunelleschi nel famoso esperimento prospettico le evita, affidando allo specchio il compito di rappresentarle, e anche Leonardo le considererà problematiche. Chi le sfida apertamente è Andrea Mantegna, il pittore dallo stile pietroso, o che perlomeno tale appare nel 1449 a Ulisse Aleotti: “La mano industriosa et l’alto ingegno / l’imagine, raccolta nel concepto / scolpì in pictura propria viva et vera”, e oggi a José Saramago: “uno stile di solennità teatrale, il senso della intrinseca mineralità del mondo”.

Artista solido e statuino, certo, eppure ben consapevole del ruolo della fantasia, come conferma la lettera del maggio 1506 inviata alla esigente e maniacale, in fatto di immagini almanaccate, Isabella d’Este: “Ho quasi fornito de designare la istori a de Como de Vostra Ex. quale andarò seguitando quando la fantasia me aiuterà”.

Quando Arturo C. Quintavalle recensisce la grande mostra dedicata al Mantegna dalla Royal Academy di Londra nel 1992, non può non chiedersi come mai l’evento avvenga in Inghilterra (a quella data erano passati trent’anni dall’ultimo omaggio tributato all’artista dalla città di Mantova). Una lunga rimozione dissoltasi solo di recente con le mostre di Padova, Verona, Mantova, e la nuova messe di studi. Indubbiamente molto è cambiato nell’approccio a questo artista, ma se si guarda ad alcuni aspetti, forse non tutto o non del tutto. Ad esempio, pochi passi ha compiuto l’attenzione rivolta proprio alle sue nuvole, in particolare a quelle “animate”, abitate cioè da volti celati e misteriosi. Naturalmente le interpretazioni non mancano, seppur in prevalenza dedicate al notissimo cavaliere nel San Sebastiano di Vienna. E se alcune si basano sul passo del De Pictura dell’Alberti: “la natura medesima pare si diletti di dipigniere, quale veggiamo quanto nelle fessure de marmi spesso dipinga ipocentauri e più facce di re barbate e chrinite”, sostenuto da analoghe considerazioni reperibili in Plinio, Lucrezio e Cicerone, altre chiamano in causa lo “spirito del tempo” che tiene insieme reale e fantastico, il solido realismo e il gusto per il chimerico. Qui, però, vorremmo tentare un’altra strada.
 

E’ al Cecca, ingegnere fiorentino, che il Vasari attribuisce l’invenzione dell’apparato scenico definito “nuvola”, e nell’edizione giuntina delle Vite ne tramanda le caratteristiche salienti: “Le nuvole poi, che di varie sorti si facevano dalle Compagnie con diverse invenzioni, si facevano generalmente a questo modo: si faceva un telaio […]; sopra questo telaio […] si accomodava una mandorla, dentro la quale, che era tutta coperta di bambagia, di cherubini e di lumi et altri ornamenti, era in un ferro al traverso”. Tale macchinario gode di un singolare destino: viene sottratto all’effimero rimanendo impresso nella pittura del tempo. “Nuvole” adattate alla pittura, infatti, appaiono quelle che nell’Ascensione di Cristo e nell’Adorazione dei Magi del Mantegna corrispondono con solida evidenza alla descrizione del Vasari, a tal punto da esibire la verticale sbarra di sostegno. Indizio di attitudine al teatrale, ma pure segno di curiosità verso la fusione di elementi diversi e le potenzialità di un inedito “dispositivo” visivo. D’altronde il Mantegna è uno sperimentatore, un esempio di “irrequietezza spaziale”, come dimostrano la visione prospettica “di sotto in su”, il “ritratto di spalla” (nell’autoritratto della cappella Ovetari), il procedimento col quale nella Camera picta inverte il normale rapporto fra opera e fruitore, e in particolare l’oculo. Eppure tutto ciò ancora non basta a giustificare le nuvole animate e la loro sfida al “vedere distintamente”.
Considerando le differenze tra i diversi volti, prende corpo la sensazione d’essere al cospetto di un dispositivo finzionale la cui funzione si precisa via via che l’autore ne scorge i possibili impieghi. La prima “apparizione” evidente è la nuvola equestre del San Sebastiano di Vienna (1459 ca). L’impressione è quella della germinale messa a punto di una forma manifestatasi come accidente, e tra tutte le nuvole abitate da lui dipinte è la più aderente a un “capriccio”, come sembrerebbe confermare la presenza dei volti sottopelle. Un’associazione d’idee, il prelievo dalla memoria di immagini rimaste impresse. In tal senso, quindi, nonostante l’identificazione non trovi consensi né giustificazione apparente, coglierebbe nel segno il Kristeller quando individua nel cavaliere il re Teodorico raffigurato in rilievo sulla facciata di San Zeno a Verona. Città alla quale sembra ricondurre anche il volto femminile, somigliante alla principessa di Trebisonda raffigurata dal Pisanello nella Chiesa di Sant’Anastasia, che fronteggia il cavaliere.
Altri volti appaiono nella nuvola maggiore del San Giorgio di Venezia, dove ne spicca uno meno capriccioso, al punto da indurci a condividere i dubbi sollevati sulla datazione corrente: il 1457. Il profilo sorridente rivolto a sinistra è infatti già molto espressivo e dettagliato, lontano da una sbozzatura. Lo si direbbe il primo tassello di un’intuizione destinata a precisarsi.


In relazione al nostro discorso, un deciso cambiamento si nota dopo l’arrivo a Mantova e il significativo mutamento di status (pittore di corte) ed esistenziale (amato e nobilitato), precisamente nell’oculo della Camera Picta (1465-1474), dove nella nube fa capolino un profilo rivolto a sinistra al quale è possibile assegnare un senso meno vago rispetto ai precedenti. Un autoritratto, non ha dubbi Daniel Arasse, perché assai simile a un profilo dipinto anni prima dal Mantegna nella Presentazione al Tempio. Utilizzando la classificazione di Victor I. Stoichita, lo si direbbe un autoritratto da visitatore, “un passo avanti sulla via della coscienza di sé dell’inserimento autoriale”, l’ingresso per effrazione dell’artista in forma di corpo estraneo. Dunque, nell’oculo, il pittore avrebbe trovato il modo di mettere a frutto un’intuizione formale sottraendola alla condizione di ghiribizzo. E lo scopo appare di carattere intimo, una firma figurata destinata solo a quelli in grado di scorgerla e di ricondurla all’artista. Un atto di autoconsapevolezza (“ogni pittore dipinge sé”), la manifestazione di una individualità che si esprime al di sopra e al di là di certi condizionamenti.
Estranei parimenti clandestini e a se stanti, sebbene non dichiaratamente autoritratti, si direbbero anche i volti presenti nelle nuvole della tela III (i portatori di trofei militari e di bottino) dei Trionfi di Cesare (1485-1492) e della Minerva scaccia i Vizi dal Giardino delle Virtù (1502): qui quello rivolto a sinistra è letteralmente “cupo” in viso, irato.
Si potrebbe notare ancora come i volti sin qui analizzati acquistino, passando da uno all’altro in progressione cronologica, sempre più nettezza fisionomica, per arrivare alla “cacciata dei vizi” dove i due tipi di nuvola (macchinario e dispositivo) si fronteggiano, quasi a suggerire la possibilità di coabitazione dopo il raggiungimento della maturata autonomia “concettuale” del dispositivo antropomorfo. Infatti, nella antecedente Madonna Trivulzio (1497), si può notare la rifusione in un’unica mandorla dei due elementi, dove i cherubini allo stato di nuvola appaiono come in formazione, non ancora cavati fuori e trasformati. In questo caso viene meno la figura dell’intruso “visitatore” ma, dato il tema e la destinazione, è verosimilmente sufficiente la firma apposta (A. Mantinia pi[nxit]) a testimoniare la presenza dell’artista.
Il Mantegna, al dunque, sembra esperire le varie possibilità combinatorie del rapporto tra i due tipi di nuvola, procedendo passo dopo passo alla messa a punto della nuvola animata. Con dei distinguo determinati, sembra probabile, dal carattere profano o religioso dell’opera e dalla sua destinazione. Una sorta di gradazione di intensità che rende perfettamente individuabili i volti nei dipinti “laici”, presenti ma dissimulati in quelli religiosi riservati a fruizione privata (il San Giorgio e il San Sebastiano), e nettamente non arcani nell’opera destinata alla devozione dei fedeli in una chiesa (la Madonna Trivulzio realizzata per Santa Maria in Organo a Verona).
In conclusione – senza entrare nelle differenze tra fisiognomica e resa dei moti dell’animo – siamo fortemente tentati dall’individuare questi volti nelle nuvole come riflessi di un’autobiografia visiva che si fa largo sfruttando uno spazio alternativo: “specchi” dello stato d’animo dell’artista (un “istante” celato al pari dei volti dipinti e mutevole come una nuvola). E parimenti ci pare logico considerare le nuvole animate come esempi significativi di ciò che un pittore può escogitare quando riflette sulle potenzialità della propria arte, e a tal fine esplora differenti possibilità nell’ambito della rappresentazione.
Il Mantegna che esce da questa ipotesi è un artista capace di individuare nel modo fantastico il giusto “territorio” per dare forma e significato a ciò che, pur invisibile (o solo parzialmente visualizzabile), non poteva rimanere pittoricamente indicibile. In altri termini: nell’agire del Mantegna – animato inizialmente dall’imitazione dei modi della natura – questi dispositivi sembrano acquisire le peculiarità di un suggestivo strumento scientemente messo a punto in ambito pittorico per ragionare sulla pittura utilizzando la pittura stessa, per giungere così a mettere in scena un vero e proprio effetto straniante:

Tutto dava luogo ad un nuovo contenuto, ad una nuova concezione del mondo. […] Tutto insomma si metteva in movimento. Nell’ambiente umanistico si apprezzava la capacità di prendere ciò che è noto a tutti e renderlo come nuovo e ignoto” (L. M. Batkin).

 
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