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Speleologia dei significati: esplora con noi i cunicoli più profondi della Vergine delle Rocce




Leonardo-Vergine-delle-rocce-1482.86-Parigi-Louvre
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ANCORA SULLA VERGINE DELLE ROCCE DI LEONARDO.
L’angelo, Sant’Ambrogio e altre questioni
 
di Claudio A. Barzaghi
 
 
Ritorni.
Perché tornare su un argomento già trattato? I motivi sono probabilmente mille, ma due si guadagnano in questo caso il primo piano: su alcune questioni non si smette mai di riflettere, e secondariamente aleggia sempre la sensazione di aver trascurato qualcosa o di non averla sviscerata a sufficienza. Nel caso della Vergine delle rocce [fig. 1]
Leonardo-Vergine-delle-rocce-1482.86-Parigi-Louvre
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di Leonardo pesa anche l’impressione di non aver disambiguato alcuni aspetti fino in fondo. E così si ritorna.
 
Una necessaria contestualizzazione.
Questa opera di Leonardo è stata oggetto di numerosissime attenzioni e di altrettante interpretazioni, alcune di queste sottili e sofisticate, altre ai limiti dell’accettabilità. Data l’imponente messe di lavori, sembra quasi impossibile pensare che vi siano ancora zone rimaste in ombra, eppure mi è sembrato che fossero rimasti relegati in un cantuccio proprio due aspetti chiave – sui quali io stesso non ho operato fino in fondo con la giusta acribia -,  affrontati i quali si sarebbe potuto sciogliere l’enigma (posto che l’opera celi effettivamente un enigma) con maggior facilità e senso logico: la vera identità della figura alata sulla destra del quadro, con il suo conseguente e determinante contributo alla narrazione complessiva, e l’innegabile dato ambientale determinato dal fatto che l’opera (indipendentemente dal suo non del tutto accertato destino) fosse stata realizzata a Milano e con buona probabilità per Milano.
 
 
Qui Leonardo arriva e qui, da persona attenta e capace di accogliere stimoli ambientali, non può non aver percepito, nell’accingersi a realizzare un’opera di carattere religioso (indipendentemente dalla committenza diretta e nota), la singolarità di una religiosità plasmata da una figura centrale e tanto amata dalla cittadinanza: “Forse di nessun altro centro urbano, in Italia e fuori, può dirsi che la complessa personalità e la memoria di un vescovo abbiano tanto fortemente inciso nell’esistenza del suo popolo come nel caso di Milano e di Ambrogio.
 
 
Non per nulla nei dizionari il termine ‘ambrosiano’ è registrato quale sinonimo di ‘milanese’; e in realtà il ricordo del santo non ha mai cessato di venire meno col passare del tempo, e non solo nelle modalità del rito ambrosiano con i suoi splendidi inni” (Gian Alberto Dell’Acqua). A riprova dell’interesse nutrito da Leonardo, non può essere privo di significato il fatto che nella sua biblioteca personale – sicuramente degna di nota per l’epoca, ma pur sempre non travolgente per numero di volumi (centosedici) – trovasse spazio il libro Vita di Sancto Ambrosio. E che Leonardo fosse a Milano proprio in un momento risorgente del culto di Ambrogio (anche a fini politici), è fatto acclarato: “Nella fase declinante del Ducato visconteo e nella subentrante epoca della Signoria sforzesca la figura di Ambrogio accresce ulteriormente il suo fascino. Durante tutto il XV secolo si assiste anzi a un’intensa ‘campagna stampa’ attraverso la ripetuta pubblicazione degli scritti del santo e della sua biografia. L’appoggio del patrono alla dinastia sforzesca […] si fa smaccatamente esplicito nella pala Sforzesca [fig. 2],
Fig. 2 Maestro della Pala Sforzesca - Pala sforzesca - 1494, Milano, Brera
 
anticamente nella chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus e oggi a Brera. Qui Ambrogio, splendidamente abbigliato, tiene la mano inguantata sulla spalla di Ludovico il Moro, in gesto di amorevole protezione e, insieme, di raccomandazione verso il Bambino benedicente” (Stefano Zuffi).
È quindi da Ambrogio e dalle sue tracce presenti nel dipinto che mi sembra utile ripartire per ribadire.
 
Sant’Ambrogio e il fondamentale nodo eloquente dell’opera
Vi è in questo dipinto un aspetto che balza subito agli occhi: la particolarissima strategia compositivo/argomentativa escogitata dall’artista per esplicitarne il senso, che ne fa un’opera acentrata. La Vergine, infatti, che pur occupa il centro geometrico di superficie, sospinge, anche con il movimento del busto, lo sguardo dell’osservatore verso destra, dove va in scena un articolato insieme di gesti affidati alle mani che, come ci ricorda Jan-Luc Nancy:  “[hanno] svolto nella pittura classica una funzione decisiva nell’organizzazione del disegno, come un segno di secondo grado che ordina, persino indicizza gli altri segni che compongono la scena”. Lo si potrebbe definire il vero nodo eloquente dell’opera, anche in considerazione del fatto che:  “le mani sono eminentemente atte ad inscenare […] rappresentazioni simboliche del soggetto generale […], simbolici spettacoli di marionette che riflettono con sorprendente immediatezza la storia dell’opera” (Rudolf Arnheim). Già in questo aspetto ‘iniziale’ – il trattamento della Vergine quasi fosse un ponte che connette e orienta -, si potrebbe cogliere una prima  traccia del pensiero di Ambrogio il quale, pur manifestando nei suoi scritti sincera venerazione nei confronti della madre di Cristo, ristabilisce però anche una verità concreta: “Maria è il tempio di Dio, non il Dio del tempio”. Insomma, il Dio del tempio non può che essere Uno, come chiaramente indicato dalla roccia/pinnacolo esterna alla grotta ma incorniciata sulla destra dalla grotta stessa e in asse con la figura alata [fig. 3],
Fig. 3 Vergine delle rocce - particolare
anzi per completezza Uno e Trino, così come ribadito dalla somma delle dita evidenziate nel gesto del Gesù bambino e dell’Entità (entrerò poco oltre nello specifico della sua identità) che interagisce fisicamente alle sue spalle;
Nel pensiero di Ambrogio si individuano in estrema sintesi tre capisaldi a più riprese ribaditi: la consustanzialità di Padre e Figlio (ribadita nel gesto del bambinello), il ruolo non secondario nella santissima trinità dello Spirito Santo, e la grande importanza riconosciuta al battesimo. E anche per quest’ultimo aspetto l’eredità di Ambrogio sembra trovare spazio ed esplicita visualizzazione; così se alle due dita del bambinello e al dito dell’Entità si sommano le cinque dita perfettamente leggibili nella mano di Maria – tutti numeri/dita rigorosamente allineati lungo la medesima verticale [fig. 4] -, si ottiene il numero otto.
Fig. 4 Vergine delle rocce - Particolare
Questo numero ha una storia lunghissima, dai pitagorici ai nostri giorni, sicuramente meritevole di un approfondimento impossibile però in questa sede, ma è anche numero oltremodo significativo per l’argomento in oggetto: “[per Ambrogio] non è privo di importanza nemmeno l’impiego dei numeri, che recano significati nascosti e profondi, secondo la concezione antica dell’aritmologia. Ma il numero prediletto da Ambrogio per la sua pregnanza mistica è senza dubbio il numero 8, l’ogdoade, che è il segno dell’escatologia inaugurata dalla resurrezione di Cristo, la quale si è verificata appunto dopo la settimana (tempo del mondo), nell’ottavo giorno” (Luigi Franco Pizzolato). Scrive infatti il Santo chiamando in causa anche il battesimo: “era giusto che l’aula del Sacro Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte”. Sì, perché è nell’epoca dei grandi Padri della Chiesa – e Ambrogio è uno di loro -, che il rito del battesimo trova la sua formalizzazione, dai gesti al rito, incluso il luogo nel quale celebrarlo: “È pacificamente accettato che, in Occidente, sia stato Sant’Ambrogio a diffondere il modello di battistero ottagonale, connettendo questa particolare struttura architettonica a una precisa sequenza nei riti stessi di iniziazione cristiana”.(Marco Navoni). Una vera predilezione per l’8 quella di Ambrogio, che si manifesta anche nei suoi inni tutti di otto strofe con versi ottosillabici. E ai fini della nostra disamina sugli indizi ambrosiani, nella Vergine delle rocce a richiamare il battesimo sono presenti insieme all’8 anche l’acqua e il Battista bambino.
 
Cos’altro potrebbe essere l’angelo?”
Già, cos’altro potrebbe essere l’angelo se non un angelo? È esattamente quanto mi sono sentito chiedere dopo aver argomentato e creduto di averne spiegata la natura. In definitiva tutti vi vedono un angelo e alcuni azzardano il nome di Uriel. Allora diventa opportuno partire da lontano, e cioè dall’inizio, in modo particolare dal significato della parola ebraica rûaḥ.
Rûaḥ appartiene al gruppo dei vocaboli onomatopeici in quanto, nella sua pronuncia ebraica, imita il fischiare del vento. Letteralmente significa ‘vento’, ‘respiro’, ma, in senso più esteso, indica un qualcosa che si muove e che a sua volta ha la forza di mettere in movimento. Nell’uso scritturistico è spesso strumento dell’agire concreto di Dio nella storia. Il Rûaḥ designa quindi esplicitamente lo Spirito di Dio che opera come forza vitale e quindi come forza creatrice […]; sarà soltanto in periodo post-esilico che il sostantivo indicherà anche il concetto di ‘Spirito Santo’ (Alessio Brombin). Inoltre, come ci ricorda Tiziana Maria di Blasio quando indaga il femminile nella ri-velazione dell’immagine di Dio: «Nel simbolismo cristiano, il tema iconografico dell’Annunciazione prevede la personificazione dello Spirito Santo, forza fecondatrice che nella lingua ebraica è femminile, ruah, in forma di colomba». Senza trascurare un altro suo aspetto fondamentale: nella tradizione questa figura si colloca tra l’umano e il divino.
Naturalmente anche Ambrogio si è soffermato in numerosi passi dei suoi scritti sullo Spirito Santo, e in uno in particolare ne fornisce una descrizione (nonché una identificazione) oltremodo suggestiva e chiarificatrice, nella quale l’idea di dito risulta la più appropriata per esprimere la funzione dello Spirito: “Certo Dio non creò il cielo e la terra con dita corporee, ma con la grazia dello Spirito settiforme, con quel dito di cui trovi scritto nel Vangelo […]. Questo dito è altrove definito Spirito, come è scritto: ‘Se nello Spirito di Dio scaccio i demoni’ (Mt 12,28). Se allora lo Spirito è il dito di Dio, visto che il Figlio ne è il braccio, lo Spirito, cooperando col Padre e col Figlio nell’unità della loro azione, ha collaborato alla creazione del cielo e della terra. Il Figlio chiamò ‘dito’ lo Spirito per indicare l’unità della divinità attraverso la metafora dell’unità delle membra del corpo”.
Al dunque, cercando di ricomporre tutti gli elementi, abbiamo nella figura rappresentata da Leonardo sulla destra tutti gli aspetti che connotano lo Spirito Santo: il suo gesto esemplificativo è affidato a un dito col quale indica il San Giovannino (artefice del battesimo di Cristo) e al tempo stesso singolarità, ha le ali, come un angelo, certo, ma anche come una colomba e come una qualunque entità aerea che debba comunicare movimento e velocità nello spostamento. Ha poi un volto spiccatamente femminile e come se non bastasse rivela la relazione dinamica tra Dio e l’uomo collocandosi spazialmente esattamente tra l’umano e il divino. L’umano che occupa il proscenio, e il divino che anche se visibile e “incorniciato” resta all’esterno del teatro seppur a esso connesso.
Ma, e al di là delle precedenti considerazioni, resta il fatto che questa è anche l’unica identificazione in grado di collocarsi in modo esplicativo all’interno della composizione. Resta, infatti, ben radicata nel sottoscritto la convinzione che il comunicatore Leonardo con quest’opera non volesse risultare ermetico e che, anzi, ricorrendo a elementi di facile identificazione (numerici e appartenenti alla cultura del tempo) si prefiggesse la piena comprensibilità dell’opera da parte dell’osservatore implicato con vari espedienti.
 
In conclusione
Non un’opera oscura ed enigmatica, al dunque, semmai un’opera che mette in scena misteri cristiani, e nel farlo ricorre ad alcune esemplificazioni facilmente interpretabili all’epoca, e comunque tutte inscritte in un sistema comunicativo tipico della pittura rinascimentale, al quale Leonardo aggiunge in modo impareggiabile la propria organizzazione degli elementi e il proprio stile. Esattamente quanto è legittimo attendersi da un’artista di tal vaglia.
 
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