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di Maurizio Bernardelli Curuz
Quando Garibaldi vittorioso giunse a Napoli, dopo aver sbaragliato le truppe borboniche, ordinò che si provvedesse alla liberazione dei prigionieri politici e delle opere d’arte antiche che erano state condannate dai Borboni a un ergastolo di oscurità.
Mentre dalle carceri uscivano uomini piegati dalle privazioni della detenzione, dal gabinetto segreto delle pitture erotiche presero a rifulgere i corpi immortali, percorsi dalla linfa incombusta della lascivia: fauni acrobati in bilico sull’organo sessuale femminile, ermafroditi dai grandi seni e dal pene carnoso, pigmei ingoiati da minuscole compagne lascive che giacevano squadernate in gusci di noce, membri esagerati appesi ai tintinnabula e persino la Danae di Tiziano, nudo monumento dalla pelle di seta irrorata da un profluvio di monete d’oro, come sprizzate dal sortilegio del corpo dello stesso Zeus.
E la sfilata di reperti proibiti che tornarono alla luce fu quasi infinita, con divinità, prostitute, funambolismi amorosi di donne reali – riconoscibili per la fascia al seno – tutte censite con evidente partecipazione emotiva, espressa dai pittori antichi – a differenza degli estensori delle tavole del Kamasutra, sempre così enciclopedici e scientifici – quasi dovessero testimoniare graficamente le arditezze bislacche di un popolo di farfalle impegnate nell’accoppiamento.
Ai tempi del Rinascimento tutte queste scene di lontane gioie corporali, per quanto assegnate ai camerini o ad angoli discosti dei giardini, e utilizzate come spezie sessuali che accendessero l’uomo e la donna, preparandoli all’atto della congiunzione, erano considerate una presenza preziosa; ma, a partire dalla Controriforma, esse furono giudicate come blasfemia esplosiva lanciata dagli Dei pagani all’ordine costituito. Nel 1609 Giulio Mancini, medico, letterato e collezionista d’arte, aveva dettato una regola compromissoria per la conservazione di dipinti o statue indecenti.
“Il padrone di casa – scriveva ne Le considerazioni sulla pittura – faccia collocare le immagini lascive, come Veneri, Marti, Tempi d’anno o donne ignude nelle gallerie di giardini e camare terrene ritirate; le deità nelle camare più terrene, ma più comuni, e le cose lascive affatto si metteranno nei luoghi ritirati, e se fusse padre di fameglia, le terrà coperte, e solo alle volte farà scoprirle quando vi andrà con consorte o persona confidente e non scrupolosa”.
In seguito agli scavi vesuviani, nel Settecento, amuleti, lucerne, dipinti e rilievi marmorei di soggetto erotico o pornografico – che da alcuni intellettuali dell’epoca furono messi in relazione con la punizione piombata dal Vesuvio sulle città della costa, peccaminose come Sodoma e Gomorra – vennero esposti nel Museo Herculanense di Portici, anche in virtù di un’arietta, carica di rose e di profumi conturbanti, che giungeva dalla Francia con il rococò e le morali effrazioni del libertinismo. L’esibizione e l’oscuramento dei reperti seguì, nei decenni, il tracciato del comune senso del pudore e la visione politica dominante.
A dimostrazione dell’esistenza di uno stretto rapporto tra libertà sessuale e rivoluzione – che delinea, sul versante opposto, il binomio Restaurazione-pudicizia – non sta soltanto la “liberazione” dei soggetti erotici da parte di Garibaldi, ma la precedente, letterale operazione di imprigionamento di satiri, ninfe, coppie gioiose, pigmei dai sessi spropositati, giacché non si trattava di un semplice oscuramento, ma di un’azione preventiva rispetto alla carica eversiva dei soggetti stessi.
Prima dello sdoganamento garibaldino, la censura scattò diverse volte, a partire da una visita compiuta negli spazi museali nel 1819 – quindi nel periodo successivo al Congresso di Vienna – da colui che, sei anni dopo, sarebbe divenuto Francesco I, re delle Due Sicilie. L’imbarazzo del futuro regnante campano nacque anche dalla condivisione della visita con la moglie Isabella e la figlia Luisa Carlotta.
Ma non fu tanto questo disagio ad impensierire il Borbone, quanto una valutazione politica e morale dell’azione diseducativa svolta dall’esibizione di una sessualità legata al peccato e al caos. L’illustre visitatore disse al conservatore del museo “che sarebbe stata cosa ben fatta il chiudere tutti gli oggetti osceni, di qualunque materia essi fossero, in una stanza, alla quale avessero poi unicamente ingresso le persone d’età matura e di conosciuta morale”.
Il suggerimento si tramutò presto nella segregazione del popolo esibizionista che, da quasi duemila anni, era arso, senza esserne consumato, dal fuoco di un eros irredimibile. Altra stretta censoria s’ebbe negli anni Quaranta, quando numerosi turisti del Nord Europa facevano richiesta di visitare il Gabinetto segreto, mentre nel 1848, con i moti rivoluzionari, l’accesso alle immagini lascive degli antichi Romani assunse la valenza simbolica della libertà di pensiero.
La spaventosa azione svolta da dipinti e statue è ben descritta dall’annichilito e anonimo sacerdote che, dopo essersi infilato abusivamente nell’enfer del museo napoletano, aveva indirizzato una supplica al sovrano finalizzata alla chiusura completa del Gabinetto.
“Un suddito fedele di Vostra Maestà, qual cristiano religioso, che guarda in Vostra Maestà il sostegno della nostra Santissima Religione, prostrato al regio trono vi manifesta ciò che fa emergere le chiome dall’orrore e dallo spavento. (…) Sire, l’oggetto delle mie preci è il seguente. Non ha guari, che essendomi portato nel Vostro Real Museo, per visitar ivi i capi d’opera che vostra Maestà possiede, m’imbattei in una compagnia di forestieri, che curiosava la stanza riservata delle cose oscene; colsi il momento per mischiarmi tra i suddetti forestieri.
Entrai. Iddio immortale! Vidi spettacolo orrendo! Degli oggetti che erano impegnati nel coito, così immodestamente che a parlarne solo, per farne descrizione, il sangue mi si gela nelle vene. Là vidi una donna sopragiacente a un uomo, ambo ignudi; qui una capra, che tien dietro l’altra col membro eretto, e che è nell’attitudine di coitare; in altra parte un uomo su di un altro, che commette il nefando vizio della sodomia; sparsi vari priapi, ed altri oggetti che mi fanno gelare la mano, e il core”.
Il sacerdote mise subito in luce la natura tellurica del materiale: “Sire, questa stanza è la peste della religione, è la corruttrice della morale de’ più modesti giovani, è la ruina de’ Vostri sudditi. Atterrito mi ritirai raccapricciato, ed ondeggiante tra mille orrorosi pensieri. Né ciò sia meraviglia; quella stanza è l’Inferno, corrompe la morale delle persone più caste, religiose e sante, alterandosi la fantasia di chicchessia”.
Garibaldi si occupò in via diretta della questione del Gabinetto segreto, ordinando, dopo una visita al museo, di liberare gli oggetti dall’ingiusta prigionia “per farli osservare giornalmente al pubblico”. Due delle chiavi che serravano il Gabinetto furono trovate, mentre della terza, che era in dotazione alla Casa reale, non v’era traccia. Il generale comandò che la porta fosse scassinata. Il provvedimento venne esteso alle dure lingerie di metallo o ai coprenti brachettoni che il pudore borbonico aveva apposto alle statue dei parchi.
CLICCA QUI PER ACCEDERE ALLE IMMAGINI DEL “GABINETTO SEGRETO” DEL MUSEO DI NAPOLI
http://www.archart.it/italia/campania/Napoli/Museo-Archeologico-Nazionale-collezione-erotica/
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