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Juan Ramón Giménez – Scultura. Sull’eterno ghiacciaio


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di Anna Maria Di Paolo

Juan Ramón Giménez, nato a Mar del Plata, Argentina, nel 1971, è pronipote di Perito Moreno, lo scopritore del ghiacciaio eterno che si estende per 30 km in Patagonia, e che oggi porta il suo nome. Ha iniziato a scolpire nel 1994. Dallo stesso anno partecipa a mostre in patria ed in 0Europa, in particolare in Spagna ed in Portogallo (XX Bienal Internacional de Arte, Cerveira, 1999). Alla fine del 2001 ha esposto al Centro Cultural Recolera di Buenos Aires.

1_6Come ha iniziato la sua attività di scultore?
Per caso. Un giorno, sulla spiaggia della mia città, raccogliendo pietre, mi resi conto che mi avrebbe dato molto piacere lavorarne le forme. Da qui cominciò tutto.
Lei ha sempre rifiutato frequentazioni accademiche…
Le istituzioni mi mettono a disagio. Mi piace fare ricerca nel mio atelier. Guardo le opere di scultori che ammiro, studio, ascolto, cerco, insomma, di accelerare il mio cammino professionale e umano. Certo, c’è anche il rovescio della medaglia, tuttavia ogni tanto mi sento compensato della fatica: se il lavoro è buono, intendo (penso a creazioni come “Luna” o “Homenaje a los pàjaros de Brancusi”).
Senza regole, il percorso non è più difficile?
Sì, è più difficile, perché non si sa con certezza che linea seguire; proprio in questo sviluppo, tuttavia, al di là dell’intuizione, spero di trovare un equilibrio. Mi sarebbe piaciuto incontrare un maestro per apprendere senza essere sottomesso ad esami, ma così non è stato.
Quanto ha influito, nell’irrequietezza che l’accompagna, l’ombra del suo celebre avo?
Quando ero piccolo la pressione era continua: si parlava di storia, di un passato glorioso e di lui come primo uomo bianco arrivato in quei ghiacciai. Ho compreso poi che la sua scoperta era come un retaggio di buon esempio, un impegno a migliorarmi come persona nella società.
Ha contatti di lavoro con altri artisti?
Sì, molto spesso. Ultimamente con la Municipalità di Mar del Plata abbiamo realizzato un programma coi bambini sul concetto di pace, partendo dal tema della violenza infantile, che ci tocca molto da vicino. Abbiamo cercato di convertire il linguaggio della violenza in un messaggio di pace, eseguendo sculture con pistole, spade, coltelli e così via per indirizzare l’aggressività verso sensazioni positive. Indicare ai giovani come trasformare le energie represse in un lavoro creativo è fondamentale in una società che operi non per distruggere, ma per costruire.
Quali sono i temi della sua ricerca?
Mi interessano i temi della luce, del movimento, dell’acqua; e il tema delle sensazioni tattili e visive, che si attiva in me quando lavoro la pietra. La pietra è un elemento vivo che occupa un posto nello spazio esterno ed interiore. La trasformazione della forma in scultura genera una serie di percezioni. E’ come se si instaurasse un dialogo, uno scambio di emozioni, un movimento non solo mentale, ma anche fisico. Del resto, pensare che un oggetto inerte, freddo, pesante come la pietra diventa poi leggero, liscio, sinuoso e agile quasi come una piuma intensifica il piacere.
Condivide l’affermazione secondo la quale la creazione artistica passa da un progressivo superamento dei propri limiti?
Certamente. Io mi sforzo ogni giorno di superare i limiti fisici, intellettuali e spirituali molto forti nella mia patria. In Argentina, infatti, la contraddizione è ancora più stridente e dolorosa, perché alla grande ricchezza di materie prime e di qualità umane individuali fa riscontro la povertà reale quotidiana. Ci siamo illusi di essere in qualche misura “europei”, mentre rimaniamo un Paese dell’America latina dove tutto può succedere. Entro questo limite, io voglio pensare che ognuno debba fare qualcosa di concreto e di positivo per cooperare al cambiamento. Dal punto di vista della ricerca individuale, invece, dobbiamo chiederci: qual è il limite della creazione? In alcune sculture – quali “Hombre” o “Espiemos la luna” – ho cercato di comprendere ciò, pur continuando a lavorare nella speranza di un ulteriore miglioramento, e nella consapevolezza che il cammino per arrivare alla libertà della forma è un’incognita: come, del resto, la vita stessa. Mi piacerebbe conseguire con la scultura la consistenza e il peso di uno sguardo.


Lei ha compiuto un lungo viaggio in Europa. Che cosa le ha insegnato?
Prima di andare in Europa non avevo capito di essere solo all’inizio del mio itinerario. L’Europa mi ha permesso di incontrare i capolavori che conoscevo solo dai libri e dai documentari. Le opere di Michelangelo mi hanno regalato la più grande sensazione della mia vita e una profonda rivelazione intima di verità, positività e continuità. Mi sono incontrato con gente che crea, che condivide, cresce, avanza e da questo trae il proprio stile di vita. Per me è stata una rivelazione: in Argentina, invece, nel mezzo della crisi, ci si rinchiude nel proprio atelier, non si condivide e dunque non si cresce. L’Europa mi ha fatto comprendere che si deve vivere non nel proprio piccolo mondo instabile, ma in un universo totale, aperto ad una continua evoluzione. Mi sono capitate cose fantastiche. In Spagna, a San Sebastian, incontrai Chillida ed ebbi l’opportunità di parlargli a lungo, non potendomi persuadere che un maestro come lui mi trattasse con tanta naturalezza. A Barcellona entrai nel laboratorio di restauro della Sagrada Familia di Gaudí, dove chiesi di collaborare e fui accettato senza problemi. Anche a Venezia ebbi via libera, stavolta per le opere di Mitoraj. Ecco, ho avuto la sensazione di una considerazione e di un rispetto per l’artista che in Argentina ancora manca. Da noi c’è il sogno, la magia; nella realtà, si pensa sempre che “si farà domani”. In Europa si fa.