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Surrealismo e alchimia. L’intervista ad Arturo Schwarz,



di Anita Loriana Ronchi

“Stile” incontrò Arturo Schwarz, in occasione della mostra  romana“Max Ernst e i suoi amici surrealisti”,  che egli curò. Stile Arte svolse un’intervista, com’è consuetudine della testata, trasformando il contingente – una mostra – in un’occasione per cogliere e individuare gli elementi strutturali-semantici e pertanto permanenti. Per questo risulta molto interessante ripercorrere le parole di Schwarz che, avendo fatto parte del grande movimento novecentesco, ha una capacità di sintesi assoluta rispetto all’esatta definizione del gruppo.. Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1924, Schwarz – poeta, scrittore, editore, collezionista di fama internazionale, nonché studioso del pensiero alchemico -, è stato amico personale di Duchamp e Breton. Ha curato, fra l’altro, la grande esposizione “I Surrealisti”, che si è tenuta a Palazzo Reale di Milano nel 1989. Egli stesso si definisce “uno degli ultimi mohicani”, essendo tra i pochissimi superstiti del movimento surrealista ed avendo conosciuto quasi tutti i protagonisti da lui scelti per questo evento.

f_1Può dirci innanzitutto quali sono stati i principali criteri espositivi che hanno guidato l’allestimento della mostra romana?
Ci sono state varie mostre sui surrealisti. Alcune, a mio parere, molto interessanti, come quella del Centre Pompidou a Parigi, anche se lacunosa perché ha dimenticato tutte le donne artiste; altre invece ultramediocri, come quella proveniente dalla Tate Gallery di Londra ed approdata al Metropolitan di New York. Purtroppo oggi è di moda diventare specialisti del surrealismo senza aver mai conosciuto né Breton né gli altri artisti. La nostra mostra si differenzia completamente da tutte le altre per il fatto che è al cento per cento bretoniana, senza nessun compromesso né dal punto di vista ideologico né dal punto di vista estetico. Qui sono presenti solamente autori che hanno lavorato con André Breton e che erano effettivamente militanti nel movimento surrealista. Dato che il surrealismo non è una tecnica pittorica, ma una filosofia della vita che si riflette anche nel dipinto, ho voluto scegliere esclusivamente artisti che avessero militato nel gruppo: gruppo nel quale le donne hanno avuto una parte estremamente importante, che non è mai stata riconosciuta dagli altri critici per androcentrismo o maschilismo.
Infatti, sette artisti su ventidue sono donne…
Esatto, e sono sette stelle di prima grandezza nel firmamento pittorico del surrealismo.
Dal quel che lei sta dicendo risulta che c’è un rinnovato interesse, negli ultimi tempi, per il movimento surrealista. Quali sono, a suo avviso, le ragioni?
Il surrealismo è innanzitutto una filosofia della vita, che accessoriamente si è espressa nella poesia, nella pittura, eccetera. Una filosofia che si può riassumere in tre parole, quelle che sono incise nel corridoio del tempio di Apollo a Delfi, e cioè “Conosci te stesso”. Non si tratta però di una conoscenza di tipo platonico, ma che ha come scopo il conoscere se stessi per trasformare se stessi. E neppure a questo si limita l’impresa surrealista: se il surrealista vuole, appunto, conoscersi per trasformarsi, è perché capisce che la trasformazione della società può avvenire solamente attraverso quella dell’individuo. Contrariamente ai marxisti, i quali pensano che sarà la società del futuro a cambiare l’uomo, noi pensiamo – e dico noi, perché io mi ritengo surrealista dal 1944 – che prima si cambia l’uomo e che poi l’uomo potrà cambiare la società, e non viceversa. La prova che noi abbiamo ragione sta nel crollo di quel comunismo che si è rivelato una burocrazia stalinista al potere per cinquant’anni. La prova è il fallimento della Rivoluzione d’ottobre nel momento stesso in cui Lenin ha preso il potere sostenuto dai Soviet e, la prima cosa che ha fatto, è stata di sciogliere proprio i consigli di operai, soldati e contadini.

Lei ha fatto parte in prima persona del surrealismo ed ha conosciuto i grandi protagonisti di questo straordinario movimento, da André Breton a Giorgio De Chirico, da Marcel Duchamp a Man Ray o Joan Miró, per citarne alcuni. Può dirci qualcosa riguardo alla sua esperienza?
Questa esperienza a livello personale mi ha arricchito considerevolmente. La frequentazione di André Breton e Marcel Duchamp e di altri mi ha fatto scoprire nuovi orizzonti, sia visivi sia conoscitivi.


L’alchimia è uno dei suoi argomenti preferiti d’indagine. La sua passione per il pensiero alchemico ha influenzato questa mostra e, in caso affermativo, in quale misura?
L’alchimia, come la cabala, pone al centro due elementi che ritroviamo identici nel surrealismo. Non è un caso che il surrealismo si sia tanto interessato a questi argomenti. Esistono parecchi saggi, anche di André Breton, che si riferiscono esplicitamente all’alchimia. I punti di contatto tra l’alchimia, la cabala e la filosofia del surrealismo sono: la conoscenza del sé, di cui abbiamo già parlato, e il riconoscimento del valore trascendentale del femminile. In tutte e tre queste filosofie della vita la donna è vista come la compagna – Mao l’ha definita molto poeticamente “l’altra metà del cielo” -: nello Zohar e nell’alchimia è detto chiaramente che la donna è l’altra metà dell’individuo, come l’uomo, ovvero sono due realtà complementari e non conflittuali. L’uomo è completo soltanto quando riconosce l’elemento del sesso opposto che lo abita. Per Jung esso si chiamava, nel caso dell’uomo, l’anima, che è l’immagine archetipale della donna, e per la donna l’animus, che è l’immagine archetipale dell’uomo. Finché l’individuo non riconosce questa duplice identità a livello psichico, rimane incompleto. Perciò tutte le divinità, in tutte le mitologie, sono sempre androgine: se fossero solamente maschili o femminili sarebbero metà della perfezione. Per l’uomo questo significa abbandonare ogni visione androcentrica, maschilista e riconoscere nella donna la dispensatrice delle più alte gioie della vita, e anche naturalmente colei che dà la vita. Non è un caso se nella Genesi la donna viene vista come il coronamento della creazione. Ed è straordinario che nella Torah, che voi chiamate Pentateuco, il racconto della creazione dell’uomo segua passo passo quello che Darwin rivelerà dopo millenni: che la vita è cominciata nel mare, poi son venuti gli anfibi, i rettili, gli uccelli, i mammiferi ed infine la specie umana. Tutti gradi dell’evoluzione, che tra l’altro la donna ripercorre dal punto di vista filogenetico quando concepisce.