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Szeemann: ”La mia Biennale di Venezia, grande platea dell’umanita”’


di Enrico Giustacchini

“Stile” ha intervistato Harald Szeemann, Direttore della 49.a edizione della Biennale di Venezia.

bien31Il titolo della 49esima Biennale è “Platea dell’umanità”. Lei ha dichiarato: ”Platea dell’umanità non è un tema, ma un’affermazione di responsabilità di fronte alla storia, agli avvenimenti del nostro tempo: è una dimensione”. Può illustrarci questo concetto, anche alla luce delle opere che saranno esposte?

La mostra inizia cronologicamente con un’opera di Beuys, “La fine del XX secolo”, appello alla solidarietà Est-Ovest, all’umanità, alla creatività, alle emozioni, al calore in grado di animare le pietre, la materia inorganica. Gli artisti di oggi sono interessati maggiormente all’uomo, al suo comportamento, al prima e al dopo la sua apparizione, all’incontro con l’altro, alle costellazioni che cambiano, allo sport come metafora di fusioni e strategia per cambiamenti economici e sociali. Dunque il ritorno del dramma e della commedia e dell’immagine dell’uomo. Non è più l’ottimismo della “Family of Man” dopo la seconda guerra mondiale, ma – come dico – una platea che offre la possibilità di incontrare l’altro sotto forma di opera d’arte. E l’arte ci mostra che la globalizzazione è un fenomeno di organizzazione piuttosto che un problema dell’artista che s’interessa al prossimo, che ride, soffre, sopporta, fallisce.

L’evento prevede l’apertura al contributo di altre arti: cinema, poesia, teatro, danza. Ciò è inserito in un preciso progetto di interazione avviato dalla Biennale…

C’è un programma per il teatro, per la danza, per la musica, c’è il festival del cinema parallelo alle arti visive. Nella 49esima esposizione abbiamo integrato alcuni cineasti, i quali hanno creato cortometraggi che non è necessario vedere al cinematografo. Per la poesia abbiamo previsto un’area di divisione, tramite un orsogrill che separa gli spazi della cultura da quelli dove è insediata la Marina militare.

Lei ha affermato che “la lotta centenaria fra astrazione e figurazione sembra passata definitivamente agli atti”. Come e quando ritiene sia avvenuto questo superamento?

Per me il problema non esiste, perché nelle mie valutazioni sono solito partire dall’intensità dell’opera e non da caratteristiche stilistiche. Ma mi sembra che con l’interesse preponderante all’essere umano ci sia un ritorno alla “figura in moto” piuttosto che al figurativo.

Non pensa che l’arte contemporanea rimanga in qualche misura un fenomeno per “addetti ai lavori”, di difficile decodificazione da parte del grande pubblico?

Ma l’arte è un linguaggio di comunicazione non verbale, sicché c’è meno gente che lo sa leggere. La maggior parte degli uomini, invece, sembra, per così dire, “vedere attraverso gli orecchi”.

L’arte contemporanea si sviluppa all’insegna della “ricerca”, che sfocia sovente nella “provocazione” (una provocazione non necessariamente contenutistica, ma d’immagine). Dimostra cioè una “incontentabilità” di fondo, quasi che l’arte debba – come la scienza – procedere scoprendo nuovi orizzonti. Spesso si ha avuto l’impressione che la Biennale abbia rappresentato una sorta di grande… expo, sulla linea delle esposizioni occidentali ottocentesche che avevano il compito di illustrare il concetto del “moderno”…

La nuova Biennale vuol essere una grande expo occidentale – i suoi spazi, la polarità dei padiglioni nazionali, le caratteristiche di mostra internazionale certo lo permettono -, ma anche, al contempo, un laboratorio delle nuove possibilità dell’immagine, statica e in movimento, e di strategia per cambiare il mondo. C’è di tutto: glorificazione, ironia, engagement sociale, divertimento, fallimento, eccetera eccetera. La Biennale vuol essere un “mondo temporaneo”, un mondo che dura cinque mesi.

Se lei dovesse fornire ad un visitatore che non conosce approfonditamente gli orizzonti del contemporaneo alcune chiavi per giungere alla comprensione, cosa suggerirebbe? Leggere le opere come frutto della frammentazione dei linguaggi? Come il tentativo di ripristinare un linguaggio comune, dopo la Babele delle avanguardie?

Suggerisco di guardare bene, di investire tempo, magari di leggere le frasi che ho scritto per la guida breve. Per me il mondo dell’arte è, in fondo, più logico – perché si compone di avventure individuali – del mondo politico e economico, che è molto più irrazionale. Si parlava con piacere, dopo la caduta del Muro, della fine delle utopie e della vittoria del capitalismo e del liberalismo. Gli artisti non credono più a queste utopie bellissime ma mal realizzate, materializzate. E si rivolgono di nuovo all’individuo, alla vita che è relazione, e nel globalismo cercano radici forti. Ma anche nella ricerca di un linguaggio comune emergono tante differenze, sfumature, rotture: come nel caso delle avanguardie, che purtroppo non erano così babeliche come si vuole credere. Forse si è già dimenticata la struttura della dialettica che, in arte, era quella dei fratelli gemelli non uguali: costruttivismo-surrealismo, pop-minimalismo, realismo-concettualismo, e così via. E poi, il passato non ci sembra mai così babelico, vero?