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Tirelli, fisica e mistica




di Roberto Gramiccia
Fra gli artisti che conosco, Marco Tirelli è quello più italianamente bello. E’ alto, naturalmente atletico, bruno, con un sacco di capelli e i lineamenti regolari. Somiglia ad Antonio Cifariello, l’attore quasi dimenticato degli anni ’50? Lui lo sa ma non se la tira più di tanto. Anche se un pizzico di autocompiacimento si indovina. Ma è una cosa che si capisce. Del resto, se uno è bello non si può mica imbruttire.
Quello che è certo è che Tirelli, che conosco e frequento ormai da tanti anni, dimostra e profonde nel suo lavoro un rigore e una professionalità che ti aspetteresti di più da uno brutto, che magari non ha successo con le donne e investe tutto sul lavoro. Scherzo, naturalmente. Anche se sono convinto che la bellezza non sia un vantaggio per gli intellettuali e gli artisti perché è fonte di consensi diciamo così multipli, fugaci e deperibili e di infinite distrazioni. Pensate alla vita artistica di un altro artista “bello” come Franco Angeli che fu, come minimo, irrequieta.
Tirelli, per quello che ne so, non si è mai distratto, anzi per anni ha vissuto e lavorato in un casale in Umbria affondato nella campagna, in una specie di bucolico e aristocratico esilio dal mondo. Una volta Fabio Sargentini mi disse che, secondo lui, Marco era tecnicamente uno dei pittori più bravi della sua generazione. E questa è una cosa che tutti gli riconoscono. Uno dei suoi meriti è sicuramente quello di non aver messo a disposizione di facili cause il suo talento e la sua tecnica, pur avendo vissuto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta quel clima generale di “ritorno alla pittura” che avrebbe potuto premiare soluzioni stilistiche accattivanti e commerciali.

Quando si dice di Marco Tirelli che è uno degli esponenti di spicco dell’astrattismo geometrico italiano, si sostiene una tesi parziale e fuorviante. Anzi, personalmente, non sono mai stato persuaso della connotazione puramente astratta del suo lavoro, né tanto meno di una sacrificata inclusione di esso entro un orizzonte riduttivamente e scolasticamente geometrico.
Certo la simmetria, la proporzione, la misura, il canone, l’equilibrio compositivo, la meditata scansione degli spazi, in una parola un impianto di tipo razional-cartesiano sono innegabili nella sua pittura. Come è innegabile la sua vicinanza spirituale ai “mistici della geometria” (Rothko, Reinhardt, Malevich) e il suo debito formativo con la tradizione classica della Scuola di Bauhaus, di De Stijl, del Costruttivismo, della Metafisica. “Mi sento come l’ago della bilancia che ha su un piatto De Chirico e sull’altro Malevich” usa ripetere Tirelli per individuare le polarità entro le quali si distendono gli equilibri sottili della sua ricerca.
Tutto questo, innegabilmente, c’è. Ed è sedimentato nel lavoro di Marco a documentare la sua cultura pittorica e, anche, i suoi interessi filosofici e scientifici. Ma c’è pure qualcosa di più. E’ a questo che voleva alludere Peter Weirmaier quando scrisse in catalogo, in occasione di un’importante personale di Tirelli alla Galleria d’Arte moderna di Bologna (2003), che il pittore romano tratta la geometria non come un fine, ma come un mezzo che gli consente di carpire il “significato poetico della forma… quello che le forme stesse nascondono… come una sottile epidermide che ricopre tutto ciò che possiamo soltanto intuire”. La questione dell’invisibile è trattata da Marco coi mezzi apparentemente certi del visibile, o meglio con la qualità che essi hanno di tradire la loro finitezza per dischiudere orizzonti diversi e più profondi.
Le forme ordinate, l’abituale casta bicromia, le luci e le ombre di Tirelli disegnano i confini e i territori di un paesaggio che non è solo mentale. I cilindri, le sfere, i coni, gli angoli delle costruzioni che sembrano preparati a raccogliere la polvere dei giorni, i recipienti quadrangolari con le brevi alzate, gli spazi piani percorsi dalle diagonali affilate, o quelli intercettati in una scena a tre dimensioni dentro la quale ti pare di poter infilare una mano, non sono soltanto esercitazioni di stile. Non sono solo esempi di una trattenuta e controllata perizia volta ad indagare il mondo delle idee (geometriche). Sono di più perché hanno a che vedere con i sensi. Perché della vita non respingono l’esperienza fisica, ma anzi la includono in un progetto di conoscenza capace di reclutare e combinare le energie della mente e quelle del cuore. Di adombrare le ragioni della ragione e quelle del mistero. Della luce e dell’ombra. Della vita e della morte.
L’ottimismo di una seconda modernità è quello che sembra connotare il lavoro e lo spirito di ricerca di Marco Tirelli, che dal peso del mistero non si lascia irretire ma riesce a sussumerlo in un progetto di valorizzazione della complessità. Alla faccia delle banalizzazioni sulla fine della storia e dell’arte, alla faccia di ogni interessato processo di identificazione tra arte e tecnica, tra fini e mezzi. Non è chi non veda come le ragioni e gli interessi del sistema dell’arte siano nel migliore dei casi indifferenti ad ogni sforzo programmatico di innovazione (quello che conta è il mercato, non l’innovazione). E’ per questo che il lavoro di Marco è oggettivamente progressivo, perché resiste alla deriva dell’ovvio ostinandosi nella disciplina della ricerca, come nella frequentazione dell’inutilità preziosa della poesia.
E’ uno dei tratti che, pur nella diversità dei modi espressivi, dei temperamenti e degli esiti, ha caratterizzato quei compagni di strada di Tirelli che hanno preso le mosse nei primi anni Ottanta nell’ex Pastificio Cerere di via degli Ausoni. Un gruppo-non gruppo. Un insieme di individualità, sicuramente non omogeneo ma unito, almeno, da una prospettiva condivisa di resistenza attiva ai tentativi che qualcuno ha definito di “secolarizzazione e profanazione dell’arte”.


Ora, se è vero che l’arte non è una religione, è altrettanto vero che non può ridursi ad un’arena in cui ci si limiti a rappresentare lo spettacolo sfibrante delle tautologie tecnologiche, o quello ormai un po’ logoro degli epigonismi di un mai pago peripatetismo nomadico o di un concettuale percorso da poche e polverose idee. Tirelli non è affetto da “strabismo” culturale e, nonostante somigli a Cifariello, non perde la sua concentrazione. Guarda indietro e di lato come ogni artista deve fare, ma per andare avanti. Di questi tempi non è poco.