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Venere benda Amore nel rosso Tiziano. Accecato perchè sia folle? Bendato perchè non offenda?


di Enrico Giustacchini

Tiziano Vecellio, Venere che benda Amore, 1565 ca., 118 x185 cm., Roma, Galleria Borghese

Si fa presto a dire “rosso Tiziano”. Non è tanto un problema di definizione. Certo, non è agevole raccontare quanto l’occhio ci rimanda. L’incasellamento nelle rigidità dell’alfabeto risulta inadeguato; patetici gli sforzi di restituire la vertigine dei sensi secondo le pur illimitate combinazioni della scrittura. E tuttavia, una definizione non è a priori impossibile. Forse insufficiente, magari mediocre negli esiti, senza alcun dubbio parziale, e soggettiva. Non impossibile, però. A definire quel “rosso” – ciascuno a suo modo – ci si può provare. Il problema è un altro. Il problema è capire – osservando un quadro del maestro cadorino: ad esempio questa tela eseguita attorno al 1565, una variazione su temi mitologici di squisita fattura e di ambiguo significato (Venere benda Amore: per punirlo? Per impedirgli di usare l’arco? Perché sia il caso a determinare il bersaglio degli strali) – come funzioni l’accostamento tra quel “rosso” e i suoi fratelli colori. Per quale diabolica legge quel “rosso” non soltanto riesca ad attrarre magneticamente su di sé lo sguardo, ma possa, nel contempo, cambiare la realtà all’intorno. Cosicché un lembo di stoffa assume da un lato il ruolo di fuoco d’attenzione, di calamita per la pupilla, di strumento dell’umana ammirazione; dall’altro sa, magicamente, sottoporre a metamorfosi cromatica tutto quanto lo circonda. E diciamo proprio “metamorfosi”: perché un arancione non è più lo stesso arancione, quando si imbatte nel “rosso Tiziano”; un verde, quel verde, non si riconosce più; quel rosa è in piena crisi d’identità. E non si sono mai veduti né un cielo così luminoso, né macchie arboree così rapitrici, né pelle di femmina così conturbante. Il piccolo grande mondo racchiuso dentro la cornice è la prova della possibilità dei miracoli.