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Vergine delle Rocce – La mano di Dio e il rivelato linguaggio dei gesti nel quadro di Leonardo


Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce, 1483-1486, olio su tavola trasportato su tela, 199x122 cm., Parigi, Museo del Louvre
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce, 1483-1486, olio su tavola trasportato su tela, 199×122 cm., Parigi, Museo del Louvre

di Claudio A. Barzaghi
Poche opere sanno conservare a lungo un segreto. E su tutte svetta come un rompicapo La vergine delle rocce del Louvre, realizzata da Leonardo a Milano tra il 1483 e il 1486. Secondo alcuni a tal punto misteriosa e ambigua da essere rifiutata dagli stessi committenti. È pur vero che gl’indizi per interpretarla non mancano, così come i documenti relativi alla committenza e alle traversie giudiziarie, però di prove certe non se ne trovano.
Già, ma forse questo è solo l’ennesimo atto di una mente complessa che per parlare chiaro sceglie l’inusuale via del ‘silenzio’, e cioè, sceglie di avvalersi del linguaggio delle mani e delle possibilità offerte dall’articolazione dello spazio. Ma perché? Forse perché il nostro artista, che non smette di ricercare nuove soluzioni, affronta qui a suo modo un delicato mistero della fede.

A Milano Leonardo conosce il pittore sordomuto Cristoforo de Predis – terzogenito della famiglia di pittori coinvolti nella realizzazione della Vergine delle Rocce – e sembra s’intrattenessero a ‘conversare’. Vi è poi nel suo Trattato della pittura un passaggio singolare: “Le figure degli uomini abbiano atto proprio alla loro operazione in modo che, vedendole, tu intenda quello che per loro si pensi o dica; i quali saranno bene imparati da chi imiterà i moti de’ muti, i quali parlano con i movimenti delle mani degli occhi, delle ciglia e di tutta la persona […]; e non ti ridere di me, perché io ti proponga un precettore senza lingua il quale ti abbia ad insegnar quell’arte ch’ e’ non sa fare; perché meglio t’insegnerà egli co’ fatti, che tutti gli altri con parole”.

Entrambi gli episodi indicherebbero uno specifico interesse, e varrebbe la pena prendere Leonardo in parola. Anche perché lui era un comunicatore, inconsuetamente creativo per i tempi ma, come si evince sempre dal suo Trattato, ben consapevole: “La pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell’universo, perché il suo fine è subietto della virtú visiva. Adunque questa non ha bisogno d’interpreti di diverse lingue, come hanno le lettere, e subito ha satisfatto all’umana specie”.

Osservando l’opera da un punto di vista semplicemente descrittivo Maria, se si divide il quadro a metà con una linea verticale, funge da ponte tra la metà sinistra e quella destra. La parte sinistra si direbbe il lato terreno, dove Maria tocca, stabilendo una complicità fisica, il Giovannino che come lei è figura umana. Mentre il lato destro sembra essere quello soprannaturale della fede, occupato da un dio che si è fatto uomo, e che manifesta la sua doppia natura toccando la terra con la mano sinistra e mantenendo il contatto con una entità (angelo? vedremo) dalla quale riceve sostegno.
Nonostante la netta divisione tutto è in relazione grazie a un dialogo muto fatto di direttrici dello sguardo, elementi del paesaggio, ‘toccamenti’ e gesti mimici. Su questi ultimi, in particolare, è interessante soffermarsi alla luce della classificazione formalizzata da Rudolf Arnheim: “potremmo distinguere sei tipi di comportamento che le mani possono rappresentare: […] 2) comunicativo, per esempio additare o far cenno; 3) simbolico, per esempio giungere le mani per la preghiera, dare la benedizione […]; 6) segnico, per esempio un certo numero di dita alzate ad indicare quantità. Con questo immenso repertorio le mani sono eminentemente atte ad inscenare ‘microtemi’, vale a dire rappresentazioni simboliche del soggetto generale di un’opera accanto al centro della rappresentazione”. E proprio gli acentrati “simbolici spettacoli di marionette” (sempre Arnheim) del lato destro, che tanta parte hanno nel dipinto costituendone un nodo eloquente, potrebbero fornire una chiave. Maria, infatti, pur partecipe di entrambe le dimensioni – aspetto ampiamente giustificato dal ruolo avuto nella venuta al mondo del dio incarnato – si limita a fungere da accogliente testimone e tramite del ‘discorso’ che viene articolato sotto la sua mano-cupola. Il Gesù bambino, invece, alza la mano rivolgendosi al Giovannino con gesto allocutorio, mentre la mano sollevata dell’entità soprannaturale, apparentemente, si limita a indicare il piccolo santo.

Certo, l’invito (formulato dal Gombrich) alla facilità e univocità di lettura rivolto a chi interpreta un’opera basandosi sui movimenti espressivi, è assennato e da tener presente; ma non si può non notare che il gesto dell’entità – così come quello del Gesù bambino, già allocutorio e benedicente insieme – potrebbe avere una valenza assai più articolata di quella immediatamente percepibile. Non v’è dubbio che l’Entità indicandolo assegni un ruolo importante al futuro Battista, richiamando su di lui la nostra attenzione; ma al tempo stesso con l’indice forma un ‘1’, che potrebbe denotare lo Spirito Santo – definito anche il “dito di Dio, […] cooperante col Padre e il Figlio nell’unità della loro azione” (Sant’Ambrogio) – e cioè l’elemento che se sommato al ‘2’ (io sono Padre e Figlio), numero facilmente evincibile dal gesto del Cristo, comporrebbe la Santissima Trinità.

Come è scritto nel Vangelo, e riscontrabile nella tradizione pittorica, la seconda manifestazione trinitaria ha luogo sulle rive del Giordano, quando lo Spirito Santo giunge dall’alto sotto forma di colomba all’atto del battesimo di Cristo a opera, appunto, del Battista. Di fatto la mano dell’entità non si limita a sovrastare leggera come una colomba la testa del pargolo, è esattamente sull’orizzontale che la collega alle mani giunte del Giovannino, in quella che ha tutta l’aria di una relazione causa-effetto, interpretabile come allusione prolettica, e cioè come anticipazione di un evento successivo al tempo della storia in cui ci si trova. Al di sopra, quasi fosse un tetto, la mano-domuncula (la piccola casa di Maria) a ricordare il momento e il luogo in cui la Trinità si è manifestata sulla terra per la prima volta in occasione dell’Annunciazione. Evento che non è solo il momento dell’attribuzione a Maria di un ruolo di primo piano, ma anche il discorso in cui Gesù e Giovanni si trovano virtualmente insieme, prefigurati dalle parole dell’arcangelo Gabriele.
Fig. 3 Vergine delle rocce part. III
Si può notare ancora come il cosiddetto Angelo sia ulteriormente in diretta relazione con l’idea di ‘Uno’, se solo si traccia la linea verticale che lo collega alla svettante roccia-pinnacolo ben visibile sul fondo. Apparentemente un dettaglio, però esterno alla grotta e da essa addirittura incorniciato. Una sorta di colonna che così circoscritta assume lo statuto di una “totalità significante”.

Sempre a proposito della particolare gesticolazione, è opportuno notare come il Gesù bambino configuri un ‘2’ con la mano anche nel cartone Madonna con Sant’Anna, Gesù Bambino e San Giovannino (1501-1505 ca.).

Leonardo da Vinci, Cartone di sant'Anna (Sant'Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino) , 1501-1505 circa, disegno a gessetto nero, biacca e sfumino su carta, 141,5x104,6 cm., di Leonardo da Vinci, databile al 1501-1505, Londra National Gallery
Leonardo da Vinci, Cartone di sant’Anna (Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino) , 1501-1505 circa, disegno a gessetto nero, biacca e sfumino su carta, 141,5×104,6 cm., di Leonardo da Vinci, databile al 1501-1505, Londra National Gallery

E in quest’opera non solo si ritrovano riuniti i due cuginetti, ma si ripresenta anche il gesto dell’indice, sebbene rivolto verso l’alto e affidato a Sant’Anna. La madre di Maria che in questo lavoro preparatorio presenta, secondo Kenneth Clark, significative affinità proprio con l’angelo della Vergine delle Rocce del Louvre.
Se così fosse, sarebbero tutte indicazioni dell’impegno profuso da Leonardo per dare figura e dicibilità al mistero cristiano dell’’uno e trino’ senza fare ricorso a soluzioni stereotipate; in definitiva da par suo.
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce, 1483-1486, (particolare con evidenziazione funzione semantica delle rocce) olio su tavola trasportato su tela, 199x122 cm., Parigi, Museo del Louvre
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce, 1483-1486, (particolare con evidenze sulla funzione semantica delle rocce) olio su tavola trasportata su tela, Parigi, Museo del Louvre

Insomma, si direbbe un’opera configurata come una fitta rete di relazioni e rimandi simultanei. E del fatto si ha un ulteriore indizio nelle strane formazioni rocciose che sovrastano Maria e il battista bambino, le quali mimano e richiamano il movimento della mano-cupola della Vergine. L’espediente, oltre a ribadire il ruolo assegnato alle mani dall’artista, si direbbe una nuova esemplificazione dell’intenzionale divisone ideologica del quadro in due metà, trovandosi queste rocce sulla sinistra, dove anche il paesaggio si apre acquistando profondità; nonché accenno alla sostanziale affinità tra l’uomo e la natura, aspetto animista presente nel pensiero di Leonardo e documentato da un frammento del Codice Leicester: “La terra ha uno spirito di crescita. La carne è il suolo; le ossa la stratificazione delle rocce che formano le montagne; il sangue l’acqua sorgiva”.
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce, 1483-1486, (particolare), olio su tavola trasportato su tela, 199x122 cm., Parigi, Museo del Louvre
Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce, 1483-1486, (particolare), olio su tavola trasportato su tela, 199×122 cm., Parigi, Museo del Louvre

In definitiva Leonardo, credente o no che fosse, sembra impegnato qui a illustrare il mistero del dogma trinitario e l’importanza del battesimo, e a spiegarlo al Giovannino (in Matteo, 3 un riferimento) e agli spettatori inequivocabilmente implicati da sguardo e sorriso – segni narrativi di reazione a una presenza esterna al quadro – del supposto angelo.
Tutto sembra convergere verso una strategia discorsiva unitaria, la quale assume però l’andamento circolare di un loop: andata (da sinistra verso destra, dal terreno al divino) e ritorno (svelamento a destra e, tramite sguardo e gesto dell’angelo, nuovamente a sinistra coinvolgendo lo spettatore).
Un’impostazione complessivamente inusuale, eppure aderente alla tradizione del dettato ambrosiano che attribuisce grande importanza alla consustanzialità di ‘padre’ e ‘figlio’, e al battesimo. E lo stesso si può dire dell’identificazione dello Spirito Santo col “dito di Dio”. A dimostrazione, quantomeno dell’interesse nutrito da Leonardo per il santo patrono di Milano, la presenza nella sua biblioteca del libro Vita di S. Ambrogio.
Perciò, in conclusione, l’aspetto più irrituale dell’opera – ciò che a quanto pare la rende oscura e fantastica – sembrerebbe consistere nell’abilità con la quale viene costruito un universo di senso dall’andamento narrativo verosimile in cui, tuttavia, la sceneggiatura manifesta qualcosa d’incompatibile con l’enciclopedia religiosa presupposta dall’opera stessa. E cioè, nello specifico, l’insistito invito a guardare alla dimensione terrena e in particolare all’uomo.

Potrebbe essere un caso, o il frutto di molti fattori differenti, ma nella versione successiva, quella esposta alla National Gallery di Londra ed effettivamente proveniente dalla chiesa di San Francesco Grande di Milano, spariranno esattamente gli elementi che favorivano il particolare invito segnalando il percorso da seguire.