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I nuovi sciamani e la Land art. Richard Long racconta i percorsi verso l’assoluto naturale


La Land art, come l’Arte povera, si pongono, pur percorrendo un segmento di linguaggio contemporaneo, come intensa alternativa a quell’altra parte del mondo, quello vincente, quello metropolitano, della neo-pop art, del minimalismo, della negazione della natura, a favore della percezione dell’uomo come estensione del mostro metropolitano, di per sè, anti-naturale. Diremmo pertanto che ciò che è rimasto della pittura di paesaggio, di matrice europea, è confluito, ma solo attraverso i valori di celebrazione sacrale della natura, nelle realizzazioni artistiche “su e con” i materiali naturali.  Richard Long è uno dei principali esponenti della Land art. Egli coglie l’uomo – se stesso –  che cammina nel paesaggio, interferendo e colloquiando con esso attraverso segni dell’elaborazione umana, perfettamente integrati nel macrocosmo. Inutile sottolineare il raccordo instaurato tra la Land art e i linguaggi primitivi. La sequenzialità del cammino che diviene sequenzialità del segno, il riordino del caos naturale attraverso l’arte che tende a conchiudere ritmicamente i grafemi.

di Enrico Giustacchini

 

“Stile” ha intervistato in esclusiva Richard Long.

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Long, lei è universalmente considerato uno dei maestri della Land art. Il tema della transitorietà, del viaggio, è alla base della sua attività, fin dagli esordi, quando – non ancora ventenne – realizzava i primi “Earth works”. Può spiegarci in sintesi quali sono le motivazioni ideali di questa scelta?
Il mio lavoro ruota per intero attorno ai concetti di movimento, di tempo, di transitorietà e di permanenza della materia: ruota, insomma, attorno alla realtà del nostro mondo terreno. Inoltre, io adoro camminare. Mi affascina pure l’eccitazione intellettuale che deriva dagli sforzi di portare il tempo e la distanza (lo spazio, quindi) dentro l’arte attraverso il medium del camminare, consentendomi di espandere le dimensioni, le modalità ed i luoghi del fare scultura.

Crede si possa ancora parlare oggi di “utilità” dell’arte, come azione sociale e come opportunità di incontro tra diverse culture?
Ciò che vi è di grandioso nell’arte è proprio il suo non avere un’“utilità”; è il fatto, oltremodo interessante, che non possa essere “usata”. Tutta la buona arte è per definizione “sociale”: sia che si tratti di arte di pura gradevolezza, sia che si tratti di arte di impegno intellettuale, filosofica, sciamanica, o chissà che altro. Ed ogni cultura è stata influenzata, combattuta, arricchita, modificata da culture esterne sin dall’inizio della storia dell’uomo. Sì, questo fa parte indubitabilmente della nostra storia.

Alcuni disegni di Long dimostrano il raccordo con elementi profondi della rappresentazione del mondo, legati alla sequenzialità, al passo, alla mamma, alla circolarità, al riordino ritmico delle tracce o alla costituzione di un rassicurante "tutto pieno"
Alcuni disegni di Long dimostrano il raccordo con elementi profondi della rappresentazione del mondo, legati alla sequenzialità, al passo, alla mappa, alla circolarità, al riordino ritmico delle tracce o alla costituzione di un rassicurante “tutto pieno”

 

Lei ha soggiornato in India, dove ha conosciuto Jvya Soma Mashe, il maggiore interprete vivente dell’arte warli. Come è nata l’idea di questa straordinaria frequentazione?
Tutto ha avuto origine in occasione della mostra “Magiciens de la Terre”, svoltasi a Parigi nel 1989, e che rappresentò un importante momento di confronto per molti artisti contemporanei di diverse culture, provenienti da ogni parte del mondo. Il curatore di quell’evento era Jean-Hubert Martin, che oggi è co-direttore del Pac di Milano, e che ha voluto, in tale veste, favorire un’occasione di ulteriore sviluppo di tale confronto, portando in Italia la nostra esperienza.

In che modo si è sviluppata la sua collaborazione con il maestro indiano?
Non so se “collaborazione” sia il termine esatto. Direi piuttosto che è stata per me davvero una grande opportunità quella di incontrare Jivya, grazie all’intervento di Hervé Perdriolle, lo scrittore e critico d’arte che già da diversi anni conosceva il maestro e ne aveva studiato il lavoro, e che si è poi occupato della cura della mostra milanese. Ritengo un privilegio l’aver potuto visitare quella regione ed essere stato diretto testimone, per circa una settimana, della vita tribale della gente warli.

Lei e Mashe avete operato quindi ciascuno nella propria autonomia.
Durante il mio soggiorno in India, sì. Devo però ricordare che in un’altra occasione, in Europa – e precisamente a Düsseldorf – Jivya ed io abbiamo realizzato un lavoro insieme.

Ha riscontrato affinità di linguaggio con lui?
Penso che sia difficile affermare che esista un linguaggio comune ad entrambi: è però indiscutibile che noi ci siamo incontrati e compresi reciprocamente da buoni artisti, ed in virtù di quell’innata sensibilità che agli artisti, credo, appartiene. Un poco per volta, con gradualità, egli mi rivelava il suo lavoro; al contempo assisteva allo svolgimento del mio. Tutto ciò che ciascuno di noi ha fatto allora si è concretizzato, per così dire, nell’“aura” dell’altro.

La sua arte è stata definita “un elogio alla Terra”. Il rispetto per la natura e l’attenzione all’intervento dell’uomo sono per lei momenti ugualmente significativi dell’itinerario creativo che sta seguendo: a suo giudizio, come si possono conciliare tra loro?
Essere in relazione con la natura è condizione peculiare dell’umanità. Io ritengo che – seppure in modo diverso – l’arte di entrambi, quella di Jvya e la mia, sia sostanzialmente un dialogo con il paesaggio, o meglio con i tanti paesaggi che ci circondano, e con la società nella quale viviamo. Il mondo di Jivya è warli e tribale, il mio è inglese e individualistico. La sua arte è magico-narrativa, la mia è occidentale-modernista. Ma tutti e due dialoghiamo, con la Terra e con l’uomo che la popola.