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Artista prolifico, ma anche raffinato e lucido teorico, Victor Vasarely è stato protagonista di una lunga e intrigante vicenda umana e culturale, pienamente documentata da un’immensa serie di opere e scritti. L’intero ciclo del suo percorso creativo è infatti accompagnato da centinaia di appunti e riflessioni che riguardano non solo la personale ricerca, ma pure l’arte del suo tempo, la filosofia, la sociologia.

Del resto l’attività di Vasarely, in risposta ad una progettualità chiara, lineare e precisa, si è evoluta su piani infiniti che vanno dall’editoria all’architettura, dalla produzione filmica alla fotografia, dalla grafica all’organizzazione di spazi espositivi e museali, dal design alle arti applicate, alla produzione industriale. Nato a Pécs, in Ungheria, nel 1906, Vasarely, con poetica e impianto filosofico costantemente in equilibrio tra utopia sociale e sperimentazione matematica, passando attraverso differenti momenti espressivi, è diventato una figura-chiave nel vasto ambito dell’Arte cinetica e dell’Op-Art, mettendo a punto un linguaggio tipicamente astratto, saldamente ancorato alla scienza, intesa come geometria pura, e che dunque nulla concede ad ogni proiezione lirica fantastica. Figlio del Bauhaus – la notissima scuola tedesca che operò dal 1919 al 1933, fautrice del modernismo in architettura -, ma anche della Relatività e della Teoria dell’Incertezza, l’artista ha votato l’intera carriera al superamento dei limiti fisici della tela, introducendo nella pittura, nelle sue composizioni dalla precisa impaginazione costruttiva, la dimensione del movimento, ovvero una tensione dinamica ottenuta dosando una tecnica impeccabile e l’applicazione delle teorie della Gestalt, che si è espressa con una tridimensionalità tanto irreale e illusoria – negli effetti – quanto concreta e tangibile.
Sebbene coerente e omogeneo, il lavoro di Vasarely ha attraversato diverse fasi di ricerca, senza mai venir meno a ad un programma utopico, secondo il quale l’Io era messo al servizio di una società proiettata verso un futuro di fratellanza ed armonia, in cui ognuno avesse un ruolo nel raggiungimento di un fine di pace e solidarietà. “L’artista – diceva Vasarely – non ha che una scelta giusta: annullarsi come persona in favore della sua opera e offrirla con amore all’umanità astratta”. Un pensiero sistematico e razionale si colloca quindi alla base di tutta l’attività vasareliana, in cui la costruzione di un’arte eticamente corretta, attraverso il virtuosismo di una tecnica perfetta, non risulta distinta dalla moralità della vita e dal conseguente rigore. Dopo il periodo della formazione avvenuta a Budapest, dove frequenta la scuola Mühely fondata da Alexandre Bortnyk, dichiaratamente ispirata ai dettami razionalisti del Bauhaus, nel 1930 Vasarely si trasferisce a Parigi. Nell’ambiente effervescente della Ville lumiére, egli ha un iniziale trasporto nei confronti del Surrealismo, e la sua opera si frammenta in quegli anni in una sorta di commistione pittorica tra definizione geometrica dello spazio ed elementi figurativi disegnati fino al parossismo della perfezione. Ma questi tentativi di elaborazione tra Cubismo e Surrealismo saranno in seguito rinnegati dal pittore, che vi si riferirà in modo dispregiativo definendoli “fasses routes”, ovvero “falsi percorsi”.

Presto l’artista ungherese giunge ad individuare la sua strada nell’utilizzo formale delle strutture geometriche: si assiste così, negli ultimi anni Quaranta, all’effettiva rinuncia d’ogni lacerto che inclini al figurativo. Non mancano tuttavia nella poetica di questo periodo le influenze, soprattutto paesaggistiche e spaziali, dei luoghi da cui egli è circondato. Passando ad una sempre nuova e più consapevole percezione dello spazio, Vasarely inizia a mettere a fuoco l’urgenza di superare i limiti fisici della tela, creando una visione capace di coinvolgere lo spettatore in prima persona nella definizione del rapporto tra ciò che è rappresentato e ciò che viene percepito. Incomincia uno sforzo di grande rielaborazione prospettica, in cui tutto si disarticola, nel quale si confondono i limiti tra prospettiva e assonometria: prendono forma, allora, rigorose astrazioni con linee rette e ondulate, prima utilizzando soltanto il contrasto tra bianco e nero, in un secondo momento affidando un ruolo sempre più importante al colore. Nel 1955 Vasarely organizza a Parigi una mostra dal titolo Le mouvement: evento che sigla ufficialmente la nascita del Cinetismo. Per l’occasione pubblica il Manifeste jaune in cui formula, con la consueta lucida puntualità, i principi delle sue posizioni artistiche e politiche. Abbracciando le teorie in voga nella sinistra francese – e in particolare quelle sartriane -, scrive di un’arte che non può assolutamente esimersi dal rendere un contributo sociale al miglioramento delle condizioni di tutte le classi. E’ l’inizio per lui di una grande notorietà a livello internazionale.


Contemporaneamente, con la riscoperta della purezza della forma, prende corpo quella tensione a semplificare al massimo le proprie idee e le proprie opere confluita nei lavori intitolati Omaggio a Malevich, a cui si dedica fino al 1958. Qui si assiste al passo definitivo verso l’astrazione pura, dove si perde ogni rimando al mondo reale, all’architettura, al paesaggio. Negli anni immediatamente successivi, Vasarely mette a punto un vero e proprio “alfabeto plastico” composto da forme e tonalità, che, inserendosi in un concetto di arte plurale e democratica, spinto all’eccesso, gli permette di realizzare un numero infinito di dipinti usando un unico codice. In questo modo Vasarely sostituisce il concetto di unicità dell’opera, ormai giudicato inattuale, con quello della dinamicità, in grado di rendere ogni quadro diverso dagli altri e costituire il tocco personale dell’artista, che l’uso della macchina riproduttrice inevitabilmente cancella. Nel 1960 è tra i fondatori del Groupe de Recherche d’Art Visuel. Intorno alla metà degli anni Sessanta, con la partecipazione alle importanti mostre di Op-Art al MoMA di New York e a Parigi e con la conquista del Premio Guggenheim, si assiste alla sua definitiva consacrazione nel panorama dell’arte internazionale. Ricorre sempre, nel suo lavoro, il bisogno di associare il messaggio puramente estetico a quello filosofico: la realtà, trasposta in opere astratte e aniconiche, conserva un forte legame emotivo con la sua produzione, specie quando, negli anni dello sbarco sulla Luna, giunge ad elaborare una visione poetica e romantica del cosmo, una rappresentazione dell’universo attraverso una singolare convergenza tra misticismo, temi religiosi e matematica e geometria, nel quale il dialogo tra lo spettatore e la superficie dell’opera non è più ottico/cinetico, ma – appunto – emozionale. La sua ricerca si completa così negli anni Settanta, quando aggiunge tridimensionalità alle tele mediante quei “volumi inesistenti” che diventeranno la cifra della sua pittura. Cilindri, coni, cubi distorti e allungati, capaci di suggestionare, ingannando la retina. I dipinti di Vasarely paiono ragnatele fatte di triangoli e quadrati, linee e volumi che catturano l’osservatore, intrappolandolo in una dimensione inesistente e illusoria, che si dilata e si contrae. Una caleidoscopica deformazione della superficie ottenuta attraverso una creatività unica, ordinata dal preciso calcolo matematico, che sembra pulsare, che spinge l’osservatore ad oltrepassare la dimensione della percezione verso un universo ottico in continuo movimento.
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