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Wesselmann, dolcissimi rigori


di Enrico Giustacchini

“Stile” ha intervistato Tom Wesselmann, uno dei grandi maestri della pittura americana contemporanea.

xx_11Lei è considerato “il più ‘europeo’ degli artisti pop americani”. L’eleganza delle sue opere ha fatto sì che sia stato definito il continuatore della “classicità moderna” di Matisse. E’ d’accordo con queste valutazioni?
Tutta l’arte è europea. “Americana” è naturalmente la descrizione dell’approccio base di molti artisti degli Stati Uniti ed ha, se è valida, solo un breve termine. Nessun artista può lavorare ignorando gli effetti della storia dell’arte, e per la maggior parte di noi quella storia è europea. Le opere americane che io ammiro maggiormente, come quelle di De Kooning e Dienbenkorn, sembrano farsi sempre più “europee” man mano che il tempo passa. In ogni caso non mi piacciono queste distinzioni, non le uso, e considero l’arte come una lunga linea retta. Quando iniziai a dipingere, nel 1959, il mio obiettivo era compiere un passo ulteriore nell’evoluzione dell’arte figurativa. E’ difficile avere a che fare con il nudo e non imbattersi in Matisse. Ho sempre provato ad evitarlo, ma contemporaneamente ho continuato a costruire su di lui.

Le campiture nette e piatte di colore, il vivace erotismo e il raffinato naturalismo dei “Great American Nudes” ribadiscono che le novità della sua arte sono saldamente inserite nel solco della tradizione antica. Può raccontarci come nasce questo che è forse il più conosciuto tra i suoi filoni tematici?
I miei “Great American Nudes” sono nati da un intenso, quasi autolesionistico coinvolgimento con i dipinti di De Kooning degli anni Cinquanta. Volevo essere come lui: ma, sapendo anche che dovevo essere io il mio primo maestro, ho finito poi per discostarmi da lui il più possibile. Ancora ispirato dal suo basilare approccio estetico, mi sono rivolto a temi figurativi, provando a rendere le mie immagini forti come le sue. Il mio intento era quello di creare opere figurative tanto eccitanti per me quanto lo erano quelle di De Kooning. Questo mi ha messo però in conflitto con Matisse: ho cercato quindi di liberarmi dal suo influsso. L’ho evitato il più possibile, e mi sono indirizzato ad una più semplice e schietta aggressività, usando spesso implicazioni erotiche per rendere le mie immagini ancora più graffianti. I riferimenti classici sono evidenti – come ha sottolineato Rublowsky – anche nella solidità compositiva dei suoi quadri e nell’attenzione ai problemi dello spazio. Alcuni critici – pensiamo a Lucy Lippard – hanno parlato di “fusione” tra le sinuosità di Modigliani ed il rigore strutturale di Mondrian. E’ così?
La composizione è per me molto coinvolgente. Quasi tutti i problemi dell’arte riguardano non l’argomento, bensì la forma che assume la presentazione del soggetto. Io mi baso su un disegno forte per potenziare la composizione. Così, ricorro spesso ad un mix che unisce un buon livello di sinuosità, come in Matisse, ed una struttura di fondo che a volte potrebbe essere considerata comparabile in qualche modo a Mondrian.

Nell’importante mostra aperta proprio in questo periodo alla Galleria Flora Bigai di Venezia lei presenta, per la prima volta in Italia, opere realizzate su lastre di alluminio ritagliate e dipinte, assai vicine all’astrazione. E’ una scelta precisa di abbandono della figurazione?
Dal 1993 sono fondamentalmente un pittore astratto. E’ successo così: nel 1984 ho iniziato ad eseguire figure ritagliate dall’acciaio o dall’alluminio. Prima dipingevo queste forme, ci appendevo sopra i pannelli trasparenti e realizzavo l’immagine, così da ottenere i colori giusti e posizionati correttamente. (Spesso l’immagine era abbastanza complessa, e c’era solo un disegno ad inchiostro in bianco e nero: non era facile tirar fuori i colori dalla complessa ragnatela di linee bianche). Dopo aver finito l’opera, tagliavo i pannelli in pezzi e li gettavo. Un giorno mi sono incasinato con i resti, e mi ha colpito l’illimitata varietà delle possibilità astratte. In quel momento ho capito che stavo tornando a ciò che avevo voluto disperatamente nel 1959, ed ho iniziato a comporre immagini astratte a tre dimensioni in metallo tagliato. Ero felice e libero di ritornare a ciò che desideravo: questa volta però non nei termini di De Kooning, ma nei miei.

Oggi, a distanza di oltre quarant’anni, lei prosegue il suo “viaggio” nel nudo. Alcuni capolavori recenti sono, tra l’altro, esposti nella mostra veneziana. Quali sono gli elementi di continuità con le opere del passato, e quali, invece, le novità stilistiche e compositive?
Il fatto è che, dopo alcuni anni, è rinata in me la voglia di ritrovare una strada che mi conducesse verso il nudo. Nel 1999 ho iniziato a fare dell’espressionismo primi anni Sessanta. Questi nudi sono evoluti in quelli attualmente in mostra, a partire dalla serie “Sunset Nude”. La mia ricerca principale era volta a ritrarre il nudo in modo nuovo, e ricondurre quei ritratti in dipinti che avessero forti proprietà astratte.

Un’altra celebre serie da lei creata – accanto agli “Smokers”, le gigantesche labbra femminili che stringono una sigaretta – è quella delle “Still life”, nature morte tipicamente americane, costruite secondo gli schemi dei cartelloni della pubblicità stradale e rappresentanti oggetti comuni, simboli del consumismo: bottiglie di bibite, apparecchi radiofonici, e così via. Siamo insomma nel filone forse più noto della Pop art, quello che eleva, non senza ironia, le icone della quotidianità del mondo occidentale a protagoniste del racconto. In che misura lei si sente o si è sentito vicino, in tale contesto, ad altri maestri della Pop art? Quali sono stati i rapporti, personali e culturali, con loro?
Negli anni Ottanta ho realizzato nature morte – alcune a collage, alcune assemblate usando oggetti reali, come elettrodomestici funzionanti, alcune ottenute da manifesti pubblicitari, acquisiti a fatica, scrivendo un numero infinito di lettere a chi ne era in possesso. Non ero interessato in realtà a interpretare quei materiali quali simboli o icone del consumismo, ma a fare nature morte in un modo cui non ero mai ricorso prima. Ho usato elementi quali bottiglie o televisori perché erano elementi della mia quotidiana vita d’artista. Ho usato collage d’immagini perché le immagini erano lì, erano disponibili, ed io ero alla ricerca disperata di nuove modalità di dipingere. Mi affascinava il rimando, il riecheggiare reciproco tra gli elementi a collage e gli elementi dipinti. Per quanto riguarda la Pop art, devo dire che questo termine non mi è mai piaciuto. Non mi appartiene. Come ho ricordato prima, sono un pittore figurativo nella lunga scia evolutiva dell’arte figurativa. Non mi sono mai sentito vicino agli artisti pop. Ciò che meno mi piace riguardo al termine, è ciò che dicono molti storici e critici dell’arte, è il loro facile assunto che io sia un artista pop. Poi procedono con un’enorme messe di considerazioni che – dando per scontato che io appartenga a quel movimento – dovrebbero portare acqua al mio mulino: una serie di motivazioni aventi a che fare con la cultura iconografica e l’analisi sociale. Questo consente loro una facile lettura sulla base di tesi eminentemente letterarie. Essi tendono a voler comprendere il mio lavoro basandosi, lo ripeto, su un assunto sbagliato, e interpretano non tanto l’arte, ma ciò che c’è nelle loro menti. Matisse, per esempio, poteva fare nudi, ma quando li ho fatti io, molti critici li hanno catalogati come “pin-up”. Non c’è alcuna definizione “pop” che possa spiegare la mia arte. Ciò che vedi è, semplicemente, ciò che vedi. (hanno collaborato alberto albertini e giovanni b. tomasoni)