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Giorgio Morandi – Periodi, stile, tecnica e quotazioni dei quadri


di Enrico Giustacchini

Nel 1911, Giorgio Morandi ha ventun anni ed è innamorato di Cézanne. Condivide, certo, quanto va scrivendo al tempo Ardengo Soffici; e cioè che al francese si deve “lo sforzo gigantesco di sintetizzare in tutto il senso del volume e della luminosità, il cui risultato è stato un’opera la quale, riunendo in sé il buono delle nuove ricerche e quello tratto dagli insegnamenti del passato, inizia una rinascenza pittorica, e metterà le generazioni future sulla strada di un classicismo vero, eterno: quello di Masaccio, di Tintoretto, di Rembrandt, di Goya”.

E’ lecito credere che il giovanotto bolognese abbia meditato a lungo su queste parole. Sappiamo che nel 1910 era stato a Firenze, a studiare Masaccio, appunto, e Giotto, e Paolo Uccello. Perché stupirsi allora se in uno dei suoi primi quadri conosciuti, un Paesaggio eseguito in quel 1911, spoglio e rinserrato, stagliato, per dirla con Cesare Brandi, “contro un cielo vasto di solitudine senza approdo”, sia debitore a Giotto non meno che a Cézanne?
Morandi non dimenticherà mai la lezione dei grandi maestri antichi. Eppure gli anni a venire saranno anni ricchi di esperienze, febbrili ed inquieti, aperti alle mille sollecitazioni dell’arte – inquieta e febbrile – del suo tempo. Come ricorda in queste stesse pagine Flavio Caroli, in un decennio egli “cambia stile cinque volte; e sempre su posizioni di avanguardia”.
Cambia stile, cambia modelli di riferimento: ma invariabilmente a modo suo. Nel 1913 rivela di non essere insensibile al Futurismo. Esiste oggi, di fatto, una sola opera che testimonia tale incontro: una Natura morta di vetri (collezione Schweiller). “La moltiplicazione dei piani spaziali e delle direttrici compositive – osserva in proposito Pier Giovanni Castagnoli -, la tendenza a una compenetrazione dei piani plastici, la spinta dinamica impressa alle forme costituiscono altrettanti referti, chiaramente leggibili nel dipinto, di uno spostamento dell’attenzione di Morandi verso le proposte che andavano formulando le ricerche del Futurismo, che il pittore già conosceva, ancora prima di avere cognizione diretta delle opere realizzate in seno al movimento, viste per la prima volta, nel gennaio 1914, alla selezione presentata da Lacerba a Firenze”.

 

Nella primavera del 1914, il Nostro partecipa alla mostra futurista organizzata alla Galleria Sprovieri di Roma, ottenendo il plauso di Marinetti. Mentre si comincia a guardare a lui come a uno dei protagonisti di questa tumultuosa, rivoluzionaria stagione della pittura, Giorgio Morandi già pensa ad altro. Nel giro di pochi mesi, l’interesse per il Futurismo scemerà quasi completamente, a vantaggio di quello che egli rivolgerà al Cubismo.
Pochi mesi, si diceva. Il 1914 non si è ancora concluso, infatti, quando il giovane artista realizza una Natura morta (oggi al Musée Pompidou) che consacra l’avvicinamento alle forme cubiste. Una ricerca che continuerà inesausta, come dimostra una tela – pur essa una Natura morta -, stavolta del 1915, della collezione Mattioli. Delle due, la prima (sottolinea Castagnoli) “sfilata entro l’accentuata verticalità del formato, che sembra voler compensare l’andamento pencolante della composizione”; la seconda “austera, compatta e come implacabile nell’incernieratura spaziale dei piani plastici”; insieme a costituire “i testi salienti in cui si attua ed esprime questa ulteriore esperienza morandiana e, al tempo stesso, i poli estremi entro cui essa trascorre: passando da un più dichiarato interesse per la scomposizione dei piani di volume, all’individuazione di una geometria costruttiva fortemente semplificata e ormai intenzionata a trasferire l’analitica cubista in una nuova sintesi spaziale, che si direbbe già motivata da una insorgente volontà di stile”.

Alla ricerca
di una visione “classica”
della forma

Con Braque (e Derain), è Picasso il pittore a cui il Nostro guarda in questo periodo. “Una grande lezione che egli trasse dall’artista spagnolo – commenta Laura Mattioli Rossi – fu il rapporto tra la tridimensionalità evocata dai modelli e dal piano d’appoggio e il loro raccordarsi alla bidimensionalità della tela, l’apparente semplicità della composizione degli oggetti e la costruzione prospetticamente incoerente di ciascuno di essi rispetto all’ambiente”. In alcune opere, ad esempio, “il piano del tavolo è pericolosamente verticale, quasi più un fondale che un piano d’appoggio per gli oggetti che scivolano in avanti e sono scorciati di tre quarti invece che perpendicolarmente”. Come in Picasso, appunto. Ma, anche, come in molti dipinti antichi (pensiamo all’Ultima Cena di Duccio, sul verso della Maestà di Siena).
Il richiamo della tradizione è sempre vivissimo. L’intreccio con il nuovo, fitto e inestricabile (Brandi rileverà, in questo periodo, la contiguità di Morandi con Paolo Uccello e le sue geometrie).
Il 1917 registra l’accostarsi del Nostro alla pittura metafisica. Il disegno si fa incisivo, i chiaroscuri ben definiti, la plasticità delle “cose” rimarcata. Compaiono talvolta elementi tipici dell’iconografia del movimento, quali i manichini. Ma è, la sua, davvero Metafisica? C’è da dubitarne. Mancano, nei quadri che esegue, le suggestioni letterarie e filosofiche legate alla poetica dell’enigma che stanno alla base dell’opera di De Chirico e compagni. Come egli stesso spiegherà, le nature morte di quella stagione restano, appunto, nature morte (e così le intitola). I manichini, semplici oggetti da rappresentare. Non vi è, in lui, alcun recondito intento simbolico, allusivo od evocativo. Anche se l’atmosfera totalmente immota, d’una gravità statuaria rinvia certo all’osservazione di De Chirico.
Ma ciò che gli interessa, già allora, è l’indagine formale, non il contenuto simbolico o  narrativo. Egli è, già allora, alla ricerca di una visione classica della forma. La sua riflessione è volta alla costruzione di un peculiare linguaggio che consenta alla pittura di raccogliere ed esprimere in modo attuale l’eredità degli antichi maestri.
“Inevitabile”, pertanto, l’adesione al clima e all’azione di Valori Plastici. La rivista pubblica riproduzioni di suoi dipinti; egli partecipa a tutte le esposizioni del gruppo. Intanto studia, con raddoppiato vigore, il “solito” Paolo Uccello, ma pure Caravaggio e Gentileschi, Raffaello e Ingres.
Scriverà di lui, nel catalogo di una mostra degli artisti del movimento, De Chirico: “Morandi si macina pazientemente i colori e si prepara le tele e guarda attorno a sé gli oggetti che lo circondano, dalla sacra pagnotta, scura e screziata di crepacci come una roccia secolare, alla nitida forma dei bicchieri e delle bottiglie… Egli guarda con l’occhio dell’uomo che crede, e l’intimo scheletro di queste cose morte per noi, perché immobili, gli appare nel suo aspetto più consolante: nell’aspetto suo eterno”.
Il cammino del pittore bolognese prosegue senza sosta. Nelle sue nature morte, le ombre si addensano e la materia si stratifica, trascorsa da brividi di sgomento doloroso. Nel 1921, un’altra fase può dirsi conclusa, e Brandi può annotare: “Nel proporsi degli oggetti, come frammenti di natura, l’artista coglie ora una equivalenza fenomenica di tutti gli aspetti: né le ombre hanno minore realtà dei corpi solidi, né questi più consistenza delle ombre. Oltre tale apparenza non godono di evidenza apodittica. E già naturalmente, nell’immagine, gli oggetti possono scambiare la corporeità con le ombre… Rinunziando ad ogni perspicuità ottica, l’immagine riesce a fissarsi nel flusso, improvviso e impreciso, con cui sorge dalla coscienza”.

“Non vi è nulla di astratto,
perché nulla
è più astratto del reale”

Si conservano, di questo periodo, alcuni tra i maggiori capolavori di Morandi, dove il ruolo centrale del disegno e l’attenzione al valore spaziale si affievoliscono e dove l’occhio, e il pennello, si insinuano nel cuore del visibile svaporando atmosfere e cose e stemperandole in un unico mantello, ruvido e indefinito. Francesco Arcangeli avrebbe colto qui il seme di quanto prodotto poi da Fautrier, da Morlotti, dai protagonisti insomma del naturalismo informale.
Il Nostro si arresta, però, ad un passo dallo spartiacque. Rinuncia all’astrazione, non potendo rinunciare a quel che è per lui fonte e significato del dipingere, ossia il vero. “Per me non vi è nulla di astratto: ritengo che non vi sia nulla di più surreale, e di astratto, del reale” dichiarerà in una delle rare interviste rilasciate.
“Il punto di incontro fra i diversi livelli del reale, fra ciò che sta fuori e ciò che dall’interno preme per trovare una sua forma sensibile – afferma con acutezza Marilena Pasquali -, è lo sguardo, termine squisitamente bifronte a rappresentare sia la capacità visiva che il campo disponibile alla vista. Eletto come facoltà principe fra i cinque sensi, per Morandi lo sguardo è il principale ponte con il mondo, l’unico cui egli riconosca liceità e bellezza, la soglia di contatto fra se stesso e ciò che lo circonda, la chiave di ogni avventura del pensiero e dell’emozione. E l’opera ne è il frutto, meno materiale e più pura possibile, come la luce che penetra nello spazio inaccessibile della creazione e che l’occhio dell’artista filtra e riversa sulle forme della realtà”.
Così, può succedere che l’ombra si diradi, e chiarità morbide e inattese scendano ad imbibere la tela, riaprendo stanze altrimenti tenebrose, sublimando contorni di poveri arnesi quotidiani in silhouette lievi e danzanti. Stregato da Chardin – come Bonnard, eseguirà un autoritratto che è figlio legittimo del celebre autoportrait oggi al Louvre (vedi il numero scorso di Stile) -, all’autore settecentesco Morandi farà riferimento per molti dei lavori degli anni Venti. Senza dimenticare, è sottinteso, i maestri di casa nostra: tant’è che Roberto Longhi, già nel 1934, eleggerà lui ad artista capace, più che ogni suo contemporaneo, “di continuare la tradizione di alta concentrazione formale della migliore pittura italiana”.


Una “missione” a cui il Nostro resterà fedele sino alla fine (morirà nel 1964), e che ha implicato sempre, peraltro, un’idea di modernità, mai di conservazione. Modernità che (scrive Laura Mattioli Rossi) “evidentemente non si identificava per lui nella novità (troppo spesso esibita) dei mezzi espressivi e neppure nell’astrattismo, ma poteva muoversi all’interno di tecniche antiche e consolidate quali l’olio su tela, il disegno a matita, l’incisione e l’acquerello su carta; così come un repertorio di umili oggetti, sempre uguali, poteva offrirgli lo spunto per una ricerca artistica sempre in evoluzione, continua, caparbia, essenziale e autentica, capace di coinvolgerlo ogni volta totalmente ed ex novo”.
Perché – sino alla fine – il suo limpido sguardo di mago non si stancò di scrutare e di capire il segreto delle cose.
“Ha mai inventato oggetti?” gli chiesero un giorno, quand’era ormai vecchio.
“No, mai – rispose, senza esitare -. Io ho sempre visto ogni cosa, prima”.

Pur non accettando alcun approccio intellettualistico all’arte, intesa come preminenza assoluta della forma, Morandi restituisce prima atmosfere metafisiche e successivamente quei luoghi del quotidiano – le sue acquistano il valore di vedute architettoniche – , ricchi di interrogativi senza risposta, tipici del pensiero esistenzialista. E non è un caso che il regista Michelangelo Antonioni abbia frequentato il pittore, attratto da questa dimensione suprema del silenzio del mondo, rispetto a un senso dell’Essere e delle cose.

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