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Annibale Carracci. Il pittore malinconico e depresso che superò i dialetti, inventando l’italiano in pittura


L’intervista di Stile Arte (2006) a Eugenio Riccòmini

Annibale Carracci, Grande Macelleria, 1585 circa. Olio su tela, 185 x 266 cm. Oxford, Christ Church Picture Gallery
Annibale Carracci, Grande Macelleria, 1585 circa. Olio su tela, 185 x 266 cm. Oxford, Christ Church Picture Gallery

 
I Carracci (Agostino, Ludovico e Annibale) possono essere considerati una vera e propria impresa familiare dedita all’arte. Al punto che, quando operano insieme, a più mani, arrivano ad assoggettare le loro diverse personalità ad uno stile univoco nel quale si fatica a distinguerli l’uno dall’altro. Per certi aspetti, parte della critica ha sostenuto che essi si limitarono a conformarsi ai grandi pittori, non solo imitandoi, ma cercando di comprenderli e soprattutto di farli comprendere al pubblico. In realtà qual è l’innovazione pittorica derivata dalla cosiddetta “Riforma Carracci?
La “Riforma dei Carracci” è una riforma della lingua pittorica. L’Italia parlava diversi linguaggi pittorici diversi, diversi “dialetti”. La prima cosa che uno storico dell’arte compie dinnanzi a un dipinto è quella di individuarne l’area di appartenenza (lombarda, veneta, toscana). Ciò significa riconoscere un accento, quello legato a una data zona. Con i Carracci non è possibile. La loro ricerca, ed in particolare quella di Annibale, è connotata dallo studio e dalla interpretazione delle varie scuole (da Correggio a Veronese, da Tiziano e Giorgione a Raffaello, ecc.). Così facendo danno vita ad una “lingua” sconosciuta che miscela, al suo interno, i vari elementi, rendendoli singolarmente irriconoscibili. Lo fanno come nel Cinquecento, Bembo e Castiglione creano la lingua italiana. E’ vero. Quando i Carracci lavorano insieme – e lo fanno solo a fresco – sono una vera e propria impresa che persegue uno scopo comune: una pittura nuova, tutta italiana e non più legata alle maniere locali; e Annibale ci riesce più di tutti.
In che modo riesce a staccarsi dall’impresa di famiglia – Annibale e Agostino sono fratelli, Ludovico è cugino – ed affermare la propria autonomia stilistica e formale?
Annibale, più degli altri, di ogni schema compositivo, di ogni figura appresa dai maestri che studia, fa la riprova. Ossia disegna e ridisegna tutto dal vivo, mettendo in posa il modello. Si appropria, attraverso l’esperienza di ciò che vede e che apprende. Basti pensare ai disegni preparatori realizzati per la Galleria Farnese: se cento sono i rimasti, significa che quelli eseguiti erano molti, molti di più.
Cosa intende Longhi quando individua un “movente lombardo” nella pittura di Annnibale?
Certo. Longhi intende dare una connotazione precisa all’area geografica (e anche culturale) da cui proviene Annibale. In Italia le varie scuole (veneziana, romana, toscana, ecc.) erano state riconosciute con maggior forza rispetto a quella lombarda. Il filo conduttore che unisce i pittori nati al Nord, da Foppa a Caravaggio, è quello che passa per Moroni, Savoldo, Bramantino. Ossia la ricerca della verità, della verosimiglianza. La pittura lombarda si fa promotrice di un linguaggio più libero, meno legato alla forma. E’ da questa genìa che nasce l’arte di Annibale e dei Carracci.
Davanti al piccolo dipinto eseguito da Annibale per la chiesa di Santa Maria dei Funari, Caravaggio osserva: “Mi rallegro che al mio tempo vedo pure un pittore”. Quale fu il rapporto – se di rapporto si può parlare – che intercorse tra i due maestri, e quali son le affinità e le divergenze che è possibile individuare nella loro opere?
Che si conoscessero sembra ovvio. Entrambi “lombardi”, estranei all’ambiente romani, di carattere diverso – questo sì – provano stima reciproca. Durante la testimonianza a un processo – esiste il verbale – Caravaggio afferma di apprezzare i pittori “valentuomini”, quelli che dipingono bene le cose al naturale. Fra gli esempi cita il più giovane dei Carracci. Annibale, condotto in una casa romana affinchè esprimesse la sua opinione riguardo ad un dipinto di Caravaggio – probabilmente Giuditta e Oloferne – si limita ad asserire che il quadro “e’ un po’ troppo al naturale”; evitando allusioni negative o dispregiative dà il suo consenso a quel tipo di realismo, per certi aspetti eccessivamente truculento.

I due lavoravano fianco a fianco nella Cappella Cerasi. Non è così?
Sì, e in pochi lo ricordano. Monsignor Tiberio Cerasi li mette insieme per analogia: entrambi hanno preso le distanze dall’ambiente romano, manierato e sofisticato, al punto da crearsi diversi nemici tra gli artisti contemporanei. Qui ad Annibale spetta il posto d’onore. E’ lui a realizzare la pala d’altare (dai forti echi raffaelleschi). E’ impensabile quindi che i due non si siano parlati; che non abbiano preso accordi su come risolvere il problema della committenza. Tra Caravaggio e Annibale il più ossessionato dalla religiosità è senz’altro il primo. Egli ha dipinto quasi esclusivamente soggetti religiosi, abolendo, di fatto, il paesaggio; è l’uomo che tiene la scena, attore su un palcoscenico illuminato da una luce radente. Annibale è più moderno, non è assillato dalla religione. Egli inserisce le scene e le figure in un paesaggio gradevole, abitabile, che farà scuola.
All’epoca il Concilio di Trento invita a i pittori a “figurare cose ragionevoli”. La scienza inizia ad avere un approccio metodologico – causa-effetto – verso gli accadimenti e la natura, interpretati come qualcosa da indagare e scoprire a danno di credenze magiche e alchemiche superstizioni. In che misura questi fattori hanno influenzato la vocazione di Annibale, e di molti altri, a dipingere “dal vivo”?
Nella misura in cui Annibale è un pittore del suo tempo. Nel 1582 il cardinale Paoletti, uno dei padri del Concilio – e non un esperto d’arte – scrive il Discorso sulle immagini sacre e profane, nel quale chiede ai pittori di rivolgersi ai fedeli con un linguaggio più vicino alla realtà, non sofisticato e astruso.
E’ un modo per focalizzare tutto sull’episodio biblico o evangelico, sulla sua verità storica, senza che elementi accessori confinino la religione nell’area del fantastico. I pittori obbediranno?
No. Solo che appartengono allo stesso clima culturale. Ormai sanno che la “maniera” si rivolge a un’elite di corte, ai letterati. Per il successo bisogna colpire la pupilla di chiunque. In tal senso Caravaggio è avvantaggiato. I suoi dipinti vengono esposti nelle chiese, visti da tutti, non solo dagli esperti. I suoi modelli sono riconoscibili: le persone raffigurate (in abiti contemporanei e la dimensione naturale) sono le stesse che abitano nel quartiere, quelle raccolte in ammirazione davanti all’opera.
1595: Annibale, con il cugino Ludovico, giunge a Roma al servizio del cardinale Odoardo Farnese. Non tutto è come si aspettava; e la fama, nonostante le committenze, tarda ad arrivare. In che termini, però, è alle opere di questi anni che “si devono le sorti della pittura romana del Seicento”?
Odoardo Farnese non si accorge di avere in casa un genio. Lo paga pochissimo, lo fa vivere nel sottotetto, lo tratta alla stregua di uno stalliere. Per la Galleria Farnese il compenso è di 500 scudi. Un aneddoto curioso dà la misura della discontinuità delle valutazioni. Il giorno dell’apertura della Galleria un cardinale dona ad Annibale, in segno di riconoscenza, una collana d’oro di grande valore e gli commissiona un piccolo quadro che paga 300 scudi. Certo Odoardo Farnese era avaro e probabilmente incompetente in fatto d’arte. Annibale, deluso, prende le distanze e si trasferisce in una casa in affitto. Ciò non gli ha impedito di essere molto noto fra i pittori e di far crescere una sua scuola. Domenichino, Reni, Albani, Lanfranco furono suoi “figli d’arte”. Il successo lo ha ottenuto all’interno della cerchia degli artisti, tra i suoi emuli.

Se è vero che per Giorgio Vasari l’arte era mera pratica – al punto che si vantava di “eseguir velocemente” i suoi soggetti – è altrettanto vero che per Annibale dipingere significava in primo luogo imitare la natura. Si può dunque parlare di acceso contrasto e polemica ideologica tra i due?
Esiste una copia della Vite vasariane dove Annibale ha appuntato con sagacia le sue annotazioni di disappunto. Vasari è il più tipico – attenzione: non il più grande – interprete della pittura di maniera. E’ abile, decorativo. Il suo linguaggio è tutto tosco-romano. Quando affresca la Galleria della Cancelleria si vanta di averlo fatto solo in cento giorni. Michelangelo, serafico, pare abbia commentato: “Si vede, si vede”. Vasari possiede destrezza, ma non inventiva; gli manca il guizzo di intelligenza. E’ sicuramente più bravo come scrittore che come pittore. Egli si nutre del pregiudizio che vuole il disegno come unico elemento di valore della rappresentazione a scapito del colore, per tradizione peculiarità dei veneti. In realtà il disegno non si vede: quando osserviamo gli oggetti e ciò che li circonda noi percepiamo diversi toni di colore. Nulla di più. Questo Tiziano lo sapeva, Vasari no. Il suo eccesso di grafismo uccide la verità. Annibele sente giudizio differente di Vasari nei confronti della propria pittura. Per questo ne contrasta le teorie con sarcasmo e ironia, al punto di arrivare a pensare di allestire una “Carnevalata” per prendere in giro il suo antagonista.
“I pittori devono parlare con le mani”. Sulla scorta di tale affermazione, quali sono in sintesi i fondamenti da cui trae origine la poetica di Annibale?
Annibale dipinge come se guardasse dentro uno specchio. Gli autoritratti che esegue gli servono per cogliere le mutazioni del suo volto. Per vedere ciò che egli è in quel momento. Non dimentichiamo che all’epoca si era conclusa la visione tragica del Cristianesimo. Che i luterani e i calvinisti non dipingono più. Che per la Chiesa cattolica un terzo dell’Europa era perduta. La Chiesa ha dunque bisogno di una predicazione convincente, non di una teologia raffinata, e chiede ai pittori di rispondere a questa esigenza; se si raffigura la deposizione di Cristo morto si deve vedere che Cristo è morto, si deve vedere il suo corpo ulcerato. Chi guarda deve ricevere conferme da ciò che vede. E Annibalek, ripeto, cerca questa “illusione”.
Perchè proprio Annibale Carracci venne definito il “nuovo Raffaello”, ossia una sorta di riformatore della pittura italiana?
Raffaello, contrariamente a ciò che si può pensare, non è scevro dalla realtà. Anzi. Anch’egli ha una grande sete di verità. Soprattutto nelle opere della maturità. Si pensi alle Stanze della Segnatura, in Vaticano, alla Liberazione di San Pietro, dove il maestro dipinge la vita. Annibale coglie tutto questo, se ne appropria, rielaborandolo. Nel Seicento, Bellori, che scrive circa settant’anni dopo la morte di Annibale, parla di lui come di un “dono mandato dal cielo” in un ambiente – quello romano – dove la pittura era irrimediabilmente malata. Dove l’aspetto del vero, della realtà, non era tenuto in nessun conto.
Ad un certo punto Annibale – schivo e riservato per indole, viene assalito dalla “malinconia”, sino a morirne. Abbandona via via gli impegni demandando le committenze ai giovani della bottega, suoi seguaci. Privo di forza, morale s’intende, sembra essere in balia dell'”umor nero”. Che cosa accade esattamente?
Una volta lasciato Palazzo Farnese, si cimenta nell’ultima impresa, peraltro lasciata incompiuta: sei lunette della Cappella privata degli Aldobrandini. Ne dipinge due, le altre le affida all’Albani e agli allievi. Sono due opere comunque molto belle: nella fuga in Egitto tende il paesaggio in toni bassi, atmosfere intime, dando così inizio a una nuova tradizione paesaggistica che interesserà Corot e Courbet. Niente di più lontano dai paesaggi eroici di Tiziano, dai suoi tramonti accesi di rosso.
Annibale è colpito da un male moderno: la depressione. Non è stato applaudito, riconosciuto, nonostante Rubens guardi alla Galleria Farnese come esempio da cui trarre ispirazione e Poussin lo definisca un capolavoro. Nel 1609, in estate, fugge, solo, a Napoli, per stare lontano da Roma. Torna, sempre solo, in pieno luglio. Attraversa le paludi pontine, forse si ammala. Si ritira a casa, nel suo letto. Muore, ancora e sempre solo. Gli allievi si battono per ottenere una degna sepoltura: i resti di Annibale Carracci giacciono in un sepolcro, nel Pantheon, accanto alle spoglie di Raffaello. Com’è giusto che sia.

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