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Bruno Visinoni, maestro bergamasco dell'incisione



Bruno Visinoni, pittore bergamasco classe 1947, è da annoverare fra i sommi incisori italiani contemporanei. Dalla fine degli Anni ’70, quando quasi casualmente scoprì le tecniche calcografiche della puntasecca e dell’acquaforte, egli ha prodotto decine e decine di lastre, sfornando stupendi fogli tirati in pochissimi esemplari tramite un piccolo torchio artigianale che tiene nella sua cascina-studio della natia Rovetta, il paese alpino prediletto dal grande Tosi, fra le abetaie della Val Seriana.

Lastre, perlopiù di piccolo formato, e fogli in cui “Visinù” (come lo chiamano in dialetto amici e collezionisti) ha racchiuso e racchiude tutto il suo mondo, tutta la sua poesia fatta di intimismo e di consapevolezza dell’epoca. Fogli tramati di segni, nella castità cromatica del bianco e del nero, dove il connubio fra il biancore della carta e il rovello dell’inchiostro crea ombre profonde, tonalismi raffinati, suggestioni chiaroscurali, com’è proprio di questa tecnica secolare, sublime e sempre attuale, almeno quando a cimentarvisi è un artista di vaglia come Visinoni. In queste sue “sudate carte” Visinoni ci dà conto e testimonianza delle tematiche per lui elettive: figure (raramente d’invenzione, perlopiù autoritratti e ritratti), poche nature morte, e soprattutto paesaggi, il microcosmo petroso e minerale delle cave lungo il lago d’Iseo che l’autore visita e ritrae en plein air, passando ore e ore sul posto, fra gli operai, col rame sulle ginocchia, curvo a incidere sul metallo questi suoi sonetti, o sonatine. Sì, perché se la pittura – con la sua sedimentazione lenta – è una sinfonia, un poema o un romanzo, l’incisione – per la forma abbreviata, che predilige la concisione – è appunto paragonabile al sonetto e alla sonata: un costrutto essenziale, intimo, contrappuntato, dalle sonorità scoperte.
L’arte di Visinoni parte sempre dalla realtà, restituendocene la meraviglia e il magone, in un incessante diario per immagini che diviene un memento della nostra condizione di umani e di moderni, in un’ossessione figurativa che lega Bruno ad altri pittori bergamaschi: Gianfranco Bonetti, Aurelio Bertoni, Bruno Zoppetti, coi quali condivide sensibilità e atmosfere. “…La sua pittura, il suo fare arte, vuole essere innanzitutto testimonianza irriducibile di una condizione etica che si propone di servire ad un tempo la causa della bellezza e quella dell’uomo”: così scriveva nel 1990 Attilio Pizzigoni introducendo un’ormai introvabile catalogo edito da Lubrina, che fu il primo congruo e argomentato regesto del mirabile corpus calcografico di Visinoni. Corpus in cui l’artista esprime non soltanto la propria devozione per i maestri dell’incisione moderna – per i modelli inaggirabili di Rembrandt, di Goya, di Manet, di Beckmann, di Morandi – ma, primariamente, la propria nozione di una realtà (quella più prossima e domestica) letta sempre attraverso il sentimento. Il sentimento sovrano della malinconia che non esclude però la tenerezza, la rabbia, la perplessità, e che è il segreto di un’arte subito apprezzata dalla critica nazionale: di Visinoni hanno scritto, fin dalla prima ora, Giovanni Testori, Mario de Micheli, Giorgio Mascherpa, Francesco Porzio. La “visione nitida” che il poeta Paul Valéry considerò prerogativa dell’acquafortista, diviene nei fogli di Visinoni una visione nutrita di stati d’animo, asserzione d’una bellezza difficile ma che comunque esiste, pur se in bilico fra la luce e il buio. (domenico montalto)