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Edgardo Beccalossi, il cantore del Garda


Ha esplorato gli azzurri del lago, ne ha reso – specie nei dipinti di dimensioni maggiori – la luminosa trasparenza che è la celeste emanazione di certe giornate radiose, nelle quali l’acqua stessa – così placida, così intensa – diviene un irradiante lume principale che il pittore attendeva e inseguiva con la mitica pazienza dell’autentico cacciatore di immagini.
Ci sono due Edgardo Beccalossi, nell’ideale galleria che raccoglie tutta l’opera dell’artista benacense. Il primo, quello dei quadri di piccole dimensioni, generalmente destinati al mercato dai quali s’evince una ricerca del pittoresco, con inquadrature che sollecitano l’idea di un coinvolgimento emotivo dello spettatore; il secondo, più conseguente con se stesso, è l’artista che, dopo l’atto di ricerca del luogo e dell’istante magico per il confronto con il soggetto, secondo il mito della pittura en plein air e nell’ambito di un’esplorazione gioiosa del mondo, trasmette il fremito della passione per il paesaggio, attraverso un’immersione totale in esso, accordando l’occhio, il braccio e la mano alle vibrazioni cromatiche della natura. E’ in questi dipinti che il Nostro ottiene gli esiti più alti. Il mito pittorico nel quale Beccalossi cresce è quello, pur distante temporalmente, dell’Impressionismo. Un impressionismo imperituro e sovrannazionale, non legato a contingenze storiche, e pertanto atemporale, privato cioè della necessità della datazione dell’opera. Non vi sono, ai suoi occhi, altri linguaggi per celebrare la bellezza della natura, se non attraverso il puro gioco della macchia, del punto e della virgola intrisi di materia cromatica lievemente emulsionata, ma tendente a una solidità vischiosa, spremuta dal tubetto e messa a servizio delle verità fragranti del paesaggio (che risulta il genere maggiormente praticato da Beccalossi, se si esclude l’esplorazione quantitativamente limitata delle nature morte, alla quale il pittore si concede con l’idea di mantenere in esercizio, soprattutto durante le giornate proibitive dell’inverno più profondo, la mano e la sensibilità nell’ambito degli accordi cromatici).
La predominanza della visione retinica – senza che, in generale, nel quadro fossero veicolati messaggi o icone di natura simbolica – asseconda la ricerca dell’istante in cui l’inquadratura, per il convergere miracoloso di una luce traversa, di una nube che plana vaporosa sulla quinta naturale, di un’accensione delle acque lacustri raggiunge l’apice di una bellezza incantatrice destinata ad essere eternata sulla tela.
Da qui discendeva la lunga, quasi estenuante, ricerca del soggetto paesistico che offrisse un’inquadratura pittoricamente, scenograficamente, compositivamente compiuta – e a questo fine si rivelò senz’altro utile il lungo esercizio nel campo della fotografia, che però l’artista non utilizzò mai come traccia-guida per i propri dipinti, ma come campo d’esercizio per la ricerca del migliore punto d’osservazione dal quale connettere i tessuti dell’acqua, della terra e del cielo -. Un cacciatore di immagini, dicevamo, in grado di identificare un angolo di pace – negli anni delle costruzioni selvagge, delle città vincenti, dell’industria – e di rivisitarlo per cogliere il momento di luce nel quale proiettarlo, sur le motiv, cioè con il soggetto di fronte, direttamente sulla tela.
Edgardo Beccalossi scelse di fare il pittore, full-time. E fu una scelta totalizzante e non certamente facile.
Eppure, tornando dalla Germania per una vacanza con la giovane moglie tedesca – che s’innamorò subito del lago, poiché chiunque sia nato nella terra di Goethe avverte questo trascinamento rapinoso nei confronti delle nostre acque -, quando insomma tornò, dopo anni di fabbrica, decise di tagliare con il mestiere del suo passato e di iniziare daccapo, assecondato dal fervore generale di quel periodo e dall’avanzata, sempre più decisa, della mitografia della creatività e della schiettezza. Schiettezza come aderenza al vero in presa simultanea, che lo portava a concludere, a differenza di molti impressionisti storici, in un’unica seduta, senza riprese successive in studio: poiché il prelievo di luce non poteva, secondo il suo punto di vista, subire edulcorazioni o rimaneggiamenti successivi, andare, insomma, incontro ad un processo di sofisticazione.
Era pertanto il sogno dell’istante eternato a incantare Beccalossi, nella raccolta diretta delle suggestioni provocate dal trascolorare del lago, dalle sue vibrazioni o dalla marezzatura del verde vellutato degli scenari collinari sui quali egli amava, con citazioni di riconoscenza a Monet e a Renoir, evidenziare le tremule e vivide distese di papaveri, con una nota acutissima, anch’essa espressione di quella joie de vivre che caratterizza l’approccio ad ogni suo dipinto, con uno squillo, un colpo di vento, un suono cromaticamente appuntito.
Sotto il profilo stilistico, l’artista evidenzia almeno due periodi: il primo caratterizzato da una paletta lievemente ombrosa, dalla cui campitura estraeva poi il contrasto degli elementi carichi di luce; il secondo, in levare, con un progressivo rischiararsi della tavolozza fino alla scommessa di rendere l’evanescenza di certe bave lacustri irrorate di sole.
Coesistono, nei due diversi periodi, anche due maniere: quella, più frequente, di una pittura di tocco, che non disdegna di divenire materica, che, come argomentavamo in precedenza, trae origine da una rivisitazione dei capolavori dell’Impressionismo; e una stesura ben più liscia, con il colore campito in diluizioni equoree, che lascia intravedere una pista percorsa soltanto parzialmente dall’artista, in direzione di un paesaggio che si vuole riempire di presenze silenziose, e nel quale anche una barca ormeggiata e un approdo deserto sembrano richiamare alla contemplazione di un piano della realtà che sta, nell’indicibile, al di là delle evidenze del visibile.