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Piramidi nel piatto


di Gualtiero Marchesi

Nella mia sfida verso l’essenzialità formale, ho voluto misurarmi questa volta con la piramide. C’era un precedente, in verità, in tal senso. Mi riferisco alla “Piramide di Venere”, “edificata” mediante risotto con gamberi e calamaretti brunito da una nappatura di salsa di zenzero, olio, limone, soia e nero di seppia, e proposta qualche tempo fa dalle pagine della “Guida Gallo” ai risotti dei più grandi ristoranti del mondo. Ora è il turno, invece, di un dessert, ispirato ad un’importante scultura di Paola Marchesi, una “Piramide”, appunto, “guernita” di frammenti policromi e secata al vertice da un tondo di vetro. Una di quelle opere per cui un critico affermò di aver pensato “al miracolo dell’acquisizione dell’equilibrio, della sicurezza dell’approdo. Perché questa artista è oltre il guado, al di là dell’insidioso arrovellarsi. Non le appartengono le stanze fumide di atomi di materia sublimata, impalpabile ed oramai irrimediabilmente perduta. Nelle sue sculture, la forma è ben salda; la forma è tutto”; una di quelle opere dove più è evidente “l’intento allusivo, simbolico e ‘rituale’, il gioco serissimo del decrittare codici iconici ed alfabeti formali come spina dorsale dell’atto compositivo”. La scultura di Paola Marchesi è stata da me interpretata con una piramide a base di panna, uova e succo di barbabietola. Il tondo secante è diventato, secondo limpida mimesi, un’esile, croccante cialda bianca.