ART FOOD di Gualtiero Marchesi. Il cibo si declina nei mirabili calligrammi di un alfabeto infinito. Infinito per forma, infinito per materia. La sua preparazione lo incasella nelle grandi famiglie del cotto e del crudo. Solo apparentemente stridenti: in realtà, armoniche. Come c’è armonia nella composizione, nell’adagiarsi sulla campitura nera del piatto tondo.
Perché la diversità è ricchezza, è gioia per gli occhi e per la gola.
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"Stavolta mi sono proprio divertito. Ho ideato una serie di piatti il cui filo conduttore è la scrittura. Parole o segni grafici ad attraversare la campitura, come nelle opere degli artisti della Poesia Visiva".
Sul fondo scuro del piatto, si distende la mia insalata di branzino e spinaci novelli. Il verde intenso, il bianco, creano uno sfavillante contrasto di cromie. Da un punto di vista compositivo, prevale un lento sommuoversi delle forme, quasi un ondeggiare magmatico in imponderabili eppure equilibrati scoscendimenti.
La creazione di questo mese - ragout di polpa di rane e coda di gamberi in salsa di crostacei al vino rosso - gioca sul contrasto della materia.
Da una parte, l’algida, assoluta levigatezza degli involucri - autentiche sculture, nel perfetto equilibrio volumetrico e formale - e la placida immobilità della salsa, sorta di occhio del ciclone, di quieto sole addormentato tra le concavità di un candido cielo personale; dall’altra, il sussultante palesarsi del contenuto, il lieto affastellamento di tocchetti deliziosi.
Materia, consistenza. La variabilità, le mille sfaccettature delle cose, sia che le si sottoponga all’esame dello sguardo, trattandole quindi quali involucri esterni, sia che ci si avventuri nell’indagine dell’essenza più intima e molecolare.
Una rosa, essenziale come un bassorilievo romanico. Un’autentica scultura policroma, dove i rimandi alla classicità si affiancano al mio amore per talune espressioni formali del contemporaneo.
E' il turno di un dessert, ispirato ad un’importante scultura di Paola Marchesi, una “Piramide”, appunto, “guernita” di frammenti policromi e secata al vertice da un tondo di vetro. Una di quelle opere per cui un critico affermò di aver pensato “al miracolo dell’acquisizione dell’equilibrio, della sicurezza dell’approdo.
Gualtiero Marchesi ce l’ha con chi arzigogola con il riso. Chi lo utilizza - ve ne sono casi anche recenti, pensiamo a certe campagne pubblicitarie - per improbabili, ridondanti architetture barocche.
Torno a parlare di Salvatore Sava. Il motivo è semplice. Questo artista mi è congeniale. Mi capita spesso - guardando alla sua produzione - di trovarvi affinità, tanto rilevanti quanto, talvolta, impreviste e imprevedibili. I lettori della nostra rivista ricorderanno, forse, le mie riletture di due opere di Sava (“Stile” 55), “Magica Luna” e “Le tre lune”. Me ne ero servito - per così dire - per ribadire una convinzione di fondo, alla base del mio credo creativo: per sostenere, cioè, che il Colore non vada lasciato a se stesso, ma vada piuttosto rafforzato dalla Materia. Quel concetto di Colore come entità inscindibile della Materia, insomma, che non mi stanco di ripetere, e che determina il perimetro delle mie contiguità con l’uno o l’altro artista. Ora chiedo invece aiuto a Salvatore Sava per parlare di Forma. Chiedo aiuto ai suoi “Fiori di pietra”.
L’ispirazione questa volta mi è venuta dal cielo. Sì, proprio dal cielo, e per la precisione da un cielo infuocato dal tramonto che incombeva sulla periferia milanese. Ero in viaggio quando, guardando in alto, ho visto il sole affogare all’orizzonte lasciando dietro di sé, per qualche attimo, l’impronta oscura d’un raggio, obliquo ed inquietante. L’immagine mi ha colpito, con la violenza d’una emozione vera.