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Antonio Cifrondi, da Versailles a Brescia per dipingere mendicanti, poveri e furfanti


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Antonio Cifrondi, Il ciabattino, 1720-30 circa, P. Tosio Martinengo
Antonio Cifrondi, Il ciabattino, 1720-30 circa, P. Tosio Martinengo

 
Stile Arte intervista lo storico dell’arte Luciano Anelli , autore del libro Antonio Cifrondi a Brescia e il Ceruti giovane
Antonio Cifrondi (Clusone 1656-Brescia 1730), dopo aver appreso i rudimenti della pittura nella terra natale, presso il Cavalier Del Negro, viaggia in Italia e in Francia sino all’insediamento definitivo a Brescia. Può ricostruire il percorso dell’artista?
Dopo le prime esperienze a Clusone, in provincia di Bergamo, si trasferisce a Bologna per studiare col Franceschini. In questa città che, con Venezia, aveva il primato delle novità in pittura, apprende una buona tecnica, impostata su un certo classicismo. La formazione bolognese consente all’artista di impaginare in maniera grandiosa le ampie tele e i cicli di cui dissemina soprattutto la Bergamasca. Successivamente si sposta in Francia, prima a Grenoble – sede di Chartrereuse, comunità di monaci che segue la Regola si San Benedetto nell’accezione di Chartre) e poi a Parigi dove pratica la corte reale. Lavora per Versailles, è pittore del Duca d’Harcourt, conosce Le Brun. In Francia è colpito sicuramente dalla visione diretta della natura e dalla vita degli umili che caratterizza la pittura transalpina del Seicento (la produzione di quegli anni ci sfugge per il fatto molti suoi quadri sono stati attribuiti ad altri artisti). Tra il 1715 ed il 1720 giunge a Brescia. Il 1722 è l’anno, documentato, delle grandi tele dei Dodici apostoli della Chiesa di San Giuseppe, attualmente conservate al Museo diocesano di Brescia. La produzione bresciana si caratterizzò per le figure di poveri, buontemponi e pitocchi. La Pinacoteca Tosio Martinengo conserva alcune opere di questo genere, tra cui La cucitrice, La Famiglia del mugnaio (insieme toccante, col mugnaio che guarda preoccupato la poca farina, la moglie che cuce, la madre e il padre), L’uomo che intima il silenzio. Questi lavori sono estremamente numerosi e ciò induce a credere che Cifrondi si sia fermato a Brescia per almeno quindici anni.


L’artista ha un rapporto privilegiato con i frati, tant’è che muore nel convento benedettino dei Santi Faustino e Giovita. Può approfondire questo aspetto?
Sin dal soggiorno a Grenoble in cui, secondo la letteratura coeva, i frati gli offrono alloggio e gli sono protettori, si capisce il forte legame tra il pittore e i benedettini. La mobilità tra un convento e l’altro è straordinaria: nel Settecento, presso San Faustino, a Brescia, giungono Padri anche dalla Francia. Probabilmente Antonio era legato a qualche benedettino importante, attraverso cui otteneva le committenze. Negli ultimi anni lavora al convento di San Faustino Maggiore, abitando in una locanda nei pressi della chiesa. Alla sua morte, il fratello Ventura è costretto a venderne le tele per pagare alla locandiera gli affitti arretrati. I frati, in cambio dell’affitto del Refettorio,ottengono numerose tele spesso conservate presso il monastero stesso. (Padreterno sul primo altare di sinistra, posto sopra la statua “miracolosa” di santa Maria in Silva, oppure i cinque ritratti di monaci e il grande armadio decorato con le piccole figure dei santi Faustino e Giovita, firmato A.C. e datato 1725). Durante la spogliazione napoleonica, sono emersi elenchi di dipinti,i quali, nonostante non appaia mai il nome dell’autore, per le loro tematiche sono da attribuire a Cifrondi (diversamente non avrebbero senso opere di genere in un convento). Trent’anni fa, entrando nella chiesa di San Gallo a Botticino -la residenza estiva dei frati di San Faustino – ho scoperto inoltre i due grandi quadri che Antonio aveva realizzato per commemorare il trasferimento del braccio di San Benedetto da Cassino a Brescia e il dono di una parte di reliquia di san Faustino, da Brescia a Montecassino.
Come spiega il fatto che Cifrondi, pittore di corte del Duca d’ Harcourt, giunto a Brescia, non ottenga più importanti commissioni?
Spostiamoci un attimo. Quando Ceruti arriva a Brescia, la nobiltà (ad esempio, gli Avogadro, i Barbisoni) lo accetta e gli commissiona numerose opere. Questo purtroppo non è il destino di Antonio, che arriva a Brescia all’età di circa sessant’anni. Tale elemento anagrafico e il suo carattere orgoglioso gli impediscono di adeguarsi ai ritmi rapidi con i quali si stava evolvendo la pittura in quel periodo e ne determinano l’emarginazione.
Nel Settecento la pittura con scene di vita quotidiana cambia profondamente. Il mutamento principale riguarda il diverso modo di osservare il mondo dei poveri, analizzati con un approccio che oscilla tra la curiosità antropologica e la solidarietà cristiana. Come si inserisce Cifrondi in questo contesto?
Il nostro artista ed altri, come Ceruti, giunti a Brescia iniziano a dipingere i pitocchi e i mendicanti. Una probabile spiegazione è da ricercare nella presenza del giansenismo, di cui i Barbisoni – nobile famiglia presso cui lavora Ceruti – e gli abati benedettini (con cui Cifrondi aveva, lo abbiamo visto, un legame particolare) sono cultori e dall’influenza del pensiero francese caratterizzato da un’attenzione partecipata verso la povera gente.
Che influenza hanno avuto, su questa pittura, le incisioni bolognesi Arte per via?
Nella mostra La pittura della realtà, allestita a Milano nel 1953, Longhi aveva sostenuto l’estrema importanza di questa raccolta per il nostro artista. Successivamente il peso di tali incisioni è stato ridimensionato. La Gregori, ad esempio, nel volume su Ceruti ha identificato come fonte per gli sfondi alcune incisioni francesi di Callot, piuttosto che le bolognesi.
Come definirebbe la pittura di Cifrondi?
La sua pittura è l’esasperazione del barocco veloce, di decorazione. Aveva una tecnica rapida ma sicura. E’ interessante ricordare l’episodio della scommessa vincente con i frati: mentre Cifrondi lavorava in una chiesa a Gandino, in Val Seriana, scommise con Padri del convento che, nel tempo impiegato da loro per recitare il vespro, egli avrebbe realizzato un quadro istoriato con molte figure.
Dipinge con pennelli grandi e, per la sua velocità esecutiva, può essere considerato il Luca fa presto – soprannome del napoletano Luca Giordano – della Lombardia. Proprio questa pittura barocca, veloce, disprezzatissima dal prevalente gusto accademicico dell’Ottocento, è stata la causa dell’oblio critico dell’artista. (Intervista di Chiara Seghezzi, Stile arte, ottobre 2006)