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Dipingere sotto la mitraglia. Landi pitto-cronista di guerra


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di Tonino Zana

Angelo Landi dipinse la guerra che amò. Non che fosse guerrafondaio, il pittore, ma partecipò, anche civilmente, al tempo che visse. La prima guerra mondiale, la Grande guerra del 1915-1918, rappresentò un conflitto per la realizzazione degli ideali allora più convincenti, lo scontro per la conquista delle terre irredente, il coraggio fisico di una nazione di uomini contro altri uomini, a distanza ravvicinata. Fu una guerra visibile per chi ottenne i permessi ministeriali ed ebbe il cuore e l’anima per osservarla e dipingerla.
Sono concetti e valori quasi inconcepibili a meno di un secolo di distanza, ma dobbiamo pure imparare a memoria la strofa seguente per lambire, almeno, la velocità di mutamento degli ultimi tre quarti di secolo: “Nessuno, nel tempo che è trascorso su questa terra, ha visto mai correre, a tale velocità, le nuvole del tempo e scoprire tante e tante cose negli antri della scienza”.
Allora, solo allora, anche questo amore di Landi per la trincea e le sue tele dolorosamente partecipate, ci appariranno logiche.
Nella recente mostra al Palazzo della Magnifica Patria a Salò e al Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera, accanto al pittore del lago e del mare, degli affreschi locali e nazionali, dei ritratti e di Parigi, c’era una sezione dedicata al fronte di guerra. Landi fu incaricato dal Ministero del tempo di eseguire questa vasta ricognizione sulle Alpi italiane del conflitto.
Nato a Salò nel 1879 (morirà nella sua villa di Morgnaga di Gardone Riviera nel 1944), quando scoppia la guerra, Angelo Landi ha 36 anni, un’età matura a quel tempo, età da veterano per il fronte. Il caporale motociclista Angelo Landi fu richiamato e collocato all’Ufficio Stampa e Propaganda. Fu semplice per il Comando e per lui definire il ruolo di pittore-documentarista. Landi, infatti, disegnò e dipinse i vari luoghi delle trincee, le montagne e i soldati in modo tale che la cura della precisione e la misura del sentimento ne sostennero l’originalità.
Nel catalogo curato da Luciano Anelli per la mostra, con un saggio di Marcello Riccioni e schede critiche di Barbara D’Attoma, è sottolineata questa singolarità di Angelo Landi pittore di guerra, con la mano veloce di un artista professionista e il cuore che la segue, così che sentimento e realtà non si superano e camminano parallelamente e armonicamente dall’inizio alla fine della guerra.
La produzione di Landi è copiosa, disegni, pastelli, oli; e sempre nel testo edito dalla Compagnia della Stampa, Massetti Rodella editori, si segnala che “un’interessantissima e corposa documentazione di Landi pittore di guerra è contenuta in un prezioso album con foto d’epoca sia di opere che di visioni dal vero conservato presso l’Istituto Italiano del Risorgimento al Vittoriano di Roma sotto il titolo di Album fotografico OV”.
Landi si porta, solitamente, a una diversa distanza: talvolta è in trincea e assevera la tensione dei fanti, oppure dipinge la morte del nemico e controlla la forza e la quantità di spine sul reticolato. Ma, quasi sempre, la sua attenzione e il suo distendersi abbracciano l’intero paesaggio e dunque il cielo e la terra insanguinata, il cielo dell’alba, del mezzogiorno e del tramonto, contando i sacchi di trincea e i cirri, i colpi di cannone e le nuvole.
Angelo Landi, maestro di alcune grafie, non predilige l’una sulle altre; forse le mescola, a seconda del gradimento e della situazione. La guerra, come simbolo di confusione, si adatta alla numerosa strategia compositiva del pittore. Il quale seppe transitare dal terzo romanticismo decadentista al simbolismo immerso in una consapevolezza toscana, più macchiaiola che postmacchiaiola, nonostante la sfiducia del tempo.
Dominante è il suo Autoritratto con passamontagna militare. Landi compare come un eroe e una vedetta, un custode della vittoria e dell’arte, un bell’uomo del colore, massiccio, prestato a mirare una guerra altrettanto massiccia. Il simbolo, forse, di un superuomo post-romantico alla ricerca di un’altra giovinezza. Landi non ideologizzò la guerra, ne fu affascinato a causa del suo essere artista in un certo modo, del suo suggestionare – non si vede l’istrionismo coltivato di Angelo Landi? – e insieme del suo lasciarsi suggestionare

Ma fu esemplare, e in parte misterioso, lo spirito di adattamento del personaggio d’acqua al personaggio di montagna. Non è istrionismo battere il sangue con il colore, prevalere, intattamente artista, sulla tragedia e la disumanità? Direi che i disegni vengono preparati in dedica a un’illustrazione più che a una memoria personale, alla coscienza che diverranno documento: non trema niente, l’impercettibile tensione è lo stile, non il timore, il dubbio. Senza esercitazione, si intravedono un controllo e un equilibrio immediati tra il dialogo della storia che ti passa accanto, la tecnica di cui sei capace e la risultante dell’emozione.
Landi partecipa alla fatica dolorosa della guerra con la compassione della sua pittura. Non compare la disperazione e non prevale il distacco. Il dipinto di Landi non è cartolina, è la guerra per quel che è stata in quel momento all’interno di una sfida patriottica condivisa. La guerra si svolge nei preparativi, nel richiamo, nelle retrovie, nelle trincee, negli spostamenti, come nella Carovana di carretti in marcia lungo un lago, laddove il conflitto sembra lontano e la natura del 1917, fors’anche una primavera, rivela che basta tenere duro ancora poco e ricompariranno il verde e il giallo che si vedono, solitamente, in tempo di pace.
Che belle mani possiede Angelo Landi; si può adombrare, solo, con la dimenticanza verso il suo talento. Muovono la battaglia, la resistenza e l’attesa, le ombre nelle gallerie e nel rifugio, l’agguato di un fante o di una vedetta sul monte Grappa. A ben guardare, questa della guerra era una sezione per motivi di geografia espositiva. Landi, soggetti a parte, è uno solo e muove la lirica del lago come patria, il verismo della guerra, il macchiaiolismo della luce, il decandentismo di D’Annunzio, vicino di casa e di stagione, e la decadenza parigina.
Finita la guerra, andrebbe esplorato meglio quel suo soggiorno, in verità molto lungo, fors’anche di vent’anni, dalle parti di San Benedetto del Tronto. Se scenderete laggiù, vi diranno che Angelo Landi è il maestro ispiratore di tutto un ottimo Novecento marchigiano, esteso in latitudine sull’Oriente delle terre clamorose di Macchia. Qui l’artista passò a studiare e a riposare, mentre puntava lo sguardo a Sud, verso le chiese della sua potentissima illustrazione e osservava la forma del ritorno verso i suoi costanti rientri al lago. Per Landi contavano il carattere della persona e la piega di luce del posto, di Livorno e di San Benedetto, del Cadore di guerra e della quiete di Salò.
Qual è la sorgente, infine, dell’estro poliedrico di Landi? E’ visibile, forse, nell’attraente calamitare della terra gardesana. Non si sente, qui intorno, l’inchiostro della scrittura multipla e nervosamente aperta ad ogni evento di Angelo Landi, malato di vita e di pittura?