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I quattro nomi dei fratelli van Veerle – Da Venezia ad Anversa, il traffico illegale dei capolavori italiani



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di Lionello Puppi

Per la conoscenza dell’avventura storica della pittura veneta, soprattutto dal maturo Cinquecento alla metà suppergiù del Seicento, Le Maraviglie dell’Arte di Carlo Ridolfi costituiscono una referenza ineludibile. Apparse in due volumi “in Venetia, presso Gio. Battista Sgava, MDCXLVIII, all’insegna della Toscana” – ma erano state precedute da una Vita di Giacomo Robusti detto il Tintoretto stampata “in Venetia, MDCXLII, appresso Guglielmo Odoni, all’insegna della Sorte in Spadaria” e da una Vita di Paolo Caliari Veronese impressa sempre “in Venetia, MDCXLVI, presso Matteo Leni” – saranno riedite tra 1835 e 1837 in Padova da Giuseppe Vedova, con errori anche vistosi di trascrizione e con emendamenti discutibili dei testi originari, e tra 1914 e 1924 in Berlino da Detlev Freiherrn von Hadeln con assoluta fedeltà di riproduzione della princeps.
Se si tratta dell’edizione cui, a buon diritto, ricorre l’unanimità degli studiosi, occorre tuttavia constatare che, a poco meno di un secolo dalla sua apparizione, la mole di informazioni nuove che si son accumulate sul suo autore e, in ispecie, sui protagonisti del suo racconto, sulle loro opere e sul destino di queste, invoca la fatica di un aggiornamento che, più volte e da più parti promesso, resta ancora di là da venire.
Le Maraviglie dell’Arte, che scaturiscono dall’intento ambizioso di rivendicare e documentare, non tanto l’identità quanto la sovranità dell’arte veneta e pretendono, pertanto, di confrontarsi con Le vite vasariane, son ben distanti, in verità – per solidità e articolazione di impianto, per chiarezza teorica, per lucidità di giudizio critico; financo, per qualità di scrittura -, da quel capolavoro storiografico. Son doviziose, tuttavia, di notizie, attinte da documenti originali o persino – per i decenni che abbiam indicato in esordio – dalla viva voce dei protagonisti o da discendenti che ne avevano avuto diretta confidenza, e fondate sulla concreta esperienza di opere, non solo conservate negli spazi pubblici, civili e sacri, ma nelle collezioni private o transitanti per un mercato artistico effervescente, tumultuoso, privo di regole certe: o, quantomeno, ossequiate.
E si capisce. Carlo Ridolfi – era stato battezzato a Lonigo nel Vicentino il 1° aprile 1594; morirà il 5 settembre 1658 nella propria abitazione veneziana a San Samuele, e verrà sepolto nel chiostro di Santo Stefano – fu, certamente, pittore, educato nella bottega dell’Aliense, di qualche reputazione e fortuna; applicato sin dalla vigilia degli anni Quaranta del Seicento alla costruzione storiografica de Le Maraviglie, ebbe interessi letterari, cresciuti nella frequentazione del circolo libertino di Gianfrancesco Loredano: ma fu anche collezionista – soprattutto, di disegni: e la sua raccolta è finita in gran parte nella Christ Church Library di Oxford -, restauratore e copista – fors’anche falsario – di quadri; perito – cioè, esperto giuridicamente autorizzato alla stima di opere d’arte – e attore di primo piano sul mercato. Se, a quest’ultimo riguardo, può ben intendersi l’accesso alle private collezioni e alle “botteghe da quadri” che le rifornivano, meno chiaro è, a tutt’oggi, il ruolo che ebbe nei sottoboschi di attività clandestine, specialmente finalizzate all’esportazione all’estero delle opere d’arte: sottoboschi che son tutti da esplorare, non meno che le ragioni del loro proliferare, e tanto più in quanto non v’è prova di particolari restrizioni, imposte dal governo della Serenissima nella congiuntura, all’esodo di quei materiali, fatto salvo il pagamento di un dazio, previsto da una Tariffa […] di tutti i dacci di Venetia pubblicata sin dalla metà del secolo XVI e includente “pale d’altar […], tele depente” e “quadri di legno”. L’emorragia imponente d’oggetti d’arte, soprattutto di pitture, di disegni, di stampe, avviene, per così dire, alla luce del sole e, sempre allo scoperto, vede un brulicare impressionante di attori, tra i quali prevalgono, sugli intendenti, faccendieri e bottegai senza scrupoli, sensali disinvolti.

Ridolfi ne è ben edotto, e lo depreca (vol. II, p. 302) nel momento stesso in cui approva il collezionismo ed il suo dinamismo (vol. I, pp. IV-VI), ed apprezza l’attività mercantile dei veri esperti, nel cui novero si inscrive: non fa mistero dei rapporti tra Basilio Feilding, ambasciatore inglese a Venezia, e Bartolomeo Della Nave e del conseguente trasmigrar d’opere verso l’universo britannico; è informato dell’incetta, e tranquillamente la rammenta, di opere tizianesche da parte di Jacomo de Cachepin; sa bene che Paolo Del Sera è agente antiquario del cardinal Leopoldo de Medici, ma non esita a dichiararlo di “costumi gentili” e “studioso della pittura”; è al corrente della mole di capolavori – né manca di enumerarne – che Gerrit e Jan Reynst trasferirono in Olanda, rendendone “nobilissima” la casa in Amsterdam, e però, non solo si vanta della loro amicizia, ma dedica ad entrambi il primo volume de Le Maraviglie (il secondo, del resto, sarà consegnato al nome di un altro collezionista-mercante, Bartolomeo Dafino).
Alla luce di tutto ciò, colpisce l’apparizione, tra le pagine del monumento storiografico ridolfiano, di una singolare quaterna, costituita da altrettante coppie di collezionisti, ciascuna delle quali detentrice di una splendida quadreria in Anversa: Giovanni e Giacomo van Buren; Giovanni e Giacomo van Uffel; Giovanni e Giacomo van Veerle; Giovanni e Giacomo van Voert. Né impressiona di meno, a considerar con attenzione la vocazione delle quattro collezioni, l’evidente specializzazione che le caratterizza e distingue: se la raccolta dei fratelli van Veerle si presenta abbastanza variegata, assemblando opere di Antonello (una), di Giambellino (una), di Palma il Vecchio (quattro), del Pordenone (cinque), di Natalino da Murano (cinque), di Paris Bordon (due), di Bonifacio de’ Pitati (una), di Paolo Veronese (cinque), quella dei fratelli van Uffel è composta solo da dipinti di Tiziano (dodici) e del Tintoretto (otto), mentre quella dei fratelli van Buren vanta solo opere del Lotto (cinque) e di Jacopo del Ponte (nove) e quella dei fratelli van Voert si esaurisce in quattro quadri di Giorgione.
Ma, alla fin dei conti, son credibili le accoppiate presentateci dal Ridolfi? E’ curioso che, sino al recente convegno (Venezia, 2003) su Il collezionismo a Venezia e nel Veneto ai tempi della Serenissima, gli studiosi non si siano mai seriamente interrogati sulla loro concreta consistenza storica, stimolati, se non d’altro, dal ricorrere ostinato, puntuale, e sospetto, dei prenomi. Se l’avessero fatto, traendone le conseguenze, si sarebbero accorti, sui meticolosissimi repertori degli Antwerpse Kunstinventarissen uit de Zeventiende Eeuw integrati dal controllo de Les Leiggeren et autres Archives historiques de la Gilde anversoise, che, se di un Lucas van Uffel è memoria (ma della sua attività di collezionista e mercante sappiam abbondantemente da altre fonti), in Anversa non esiste traccia alcuna dei vari Giovanni e Giacomo van Buren, van Uffel e van Voert, mentre appaiono, a turno, ma nel ruolo modesto di periti o di mercanti di libri, Giovanni e Giacomo van Veerle: e ciò complica le cose.
E’ fuor di dubbio, infatti, che van Buren, van Uffel e van Voert altro non siano che eteronimi dei van Veerle: allorché, tra 1649 e 1650, Wenceslaw Hollar indugia ad Anversa per riprodurre a stampa capolavori di quelle collezioni, indicherà presso la raccolta di “Ioannis et Iacobi van Verle” i ritratti tizianeschi di Lavinia reggente un bacile con due meloni, di Daniele Barbaro e di Pietro Aretino che il Ridolfi assegnava alla quadreria di Giovanni e Giacomo van Uffel (irrecuperabile il terzo, gli altri due trovansi oggi nel Kunsthistorisches Museum di Vienna e al Prado, rispettivamente), così come il Davide con la testa di Golia e il ritratto di un “tedesco di casa Fuchera” di Giorgione, dal Ridolfi assegnati alle cose di Giovanni e Giacomo van Voert (e sono oggi a Braunschweig e a Monaco).
Ma qui sta il punto imbarazzante; anzi, inquietante. In quanto raggruppante anche le opere dal Ridolfi registrate sotto gli esponenti fasulli di van Burel, van Uffel, van Voert, la collezione dei van Veerle doveva spiccar con luminosa evidenza nel mondo dei cultori d’arte di Anversa con i suoi Giorgione, Tiziano, Veronese, Tintoretto: e un Hollar, in effetti, la visita, vi copia alcuni capolavori, mentre sappiamo, per altro riguardo, che vi accorreranno, per acquistarvi le opere, amateur di spicco, a rappresentare i quali basterà qui far il nome dell’arciduca Leopoldo Guglielmo, che, per mia ferma convinzione, dai van Veerle, e non dal Feilding, comprerà le tavole dell’ancona smembrata di Antonello da Messina già nella chiesa veneziana di San Cassiano.
Resta da calar un ultimo tassello per comporre l’immagine di un puzzle che rappresenta uno sconcertante enigma. La presenza lagunare di Giovanni e Giacomo van Veerle è attestata da un mazzetto di carte notarili che tragittano dal 28 marzo all’8 maggio 1648: orbene, i due risultano titolari di una ragione cantante (e noi diremmo premiata ditta) attiva nel commercio su Anversa di pesce in conserva, di salumi, di vini, ma anche di carta: con variabile fortuna e qualche incidente. Si trattava della copertura di un’attività mercantile ben più redditizia, ma clandestina, quella, cioè del traffico di opere d’arte? Poteva, in effetti, accadere che – complice qualche impiegato corrotto del Dazio veneziano – sotto derrate di vario genere, e regolarmente dichiarate, venissero celati altri beni – quadri e libri, per esempio -, vuoi per evitar il pagamento dell’imposta, vuoi per la provenienza dubbia di quei beni. E’ il nostro caso? Forse: perché, veramente, potrebbe trattarsi d’altro; o anche di altro. L’importazione di pitture in Anversa era regolata da limitazioni protezionistiche dettate, a tutela della propria attività, dalla potente Gilda pittorica locale: in altri termini, il contingente spedito ad un certo destinatario non poteva eccedere determinati limiti. E’ per raggirare ed eludere un siffatto ostacolo che i van Veerle ricorrono a ben tre eteronimi? La partizione delle opere per autori sembrerebbe congrua con un simile sotterfugio, non meno che la discrezione somma, e la rapidità sorprendente, con cui il bottino viene immesso e disperso sul mercato.
Si faccia caso: a cominciar dalla vicenda della summenzionata ancona di Antonello. Rimossa tra 1605 e 1607 dall’altare della famiglia Bon, per il quale il maestro siciliano l’aveva compiuta entro i primi mesi del 1476, e finita in mano di Bartolomeo Della Nave, la sorprendiamo registrata in un elenco d’opere da mandare in Inghilterra per cura di Basilio Feilding, 1638-1639; ma, meno di dieci anni dopo, è già nelle case di Giovanni e Giacomo van Veerle per riapparire, ed attingiamo l’anno 1659, ridotta in cinque pezzi e sotto il nome di Giovanni Bellini, ai numeri 47, 141, 277, 280 e 281 dell’inventario della galleria, per l’appunto, dell’arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles.
Ma si consideri, ad ulteriore esempio eloquente, il meccanismo dei passaggi di proprietà del Ritratto di Daniele Barbaro di Tiziano oggi al Prado. Dipinto attorno al 1545, molto probabilmente come replica destinata all’effigiato della versione eseguita per il museo di Paolo Giovio (adesso nella National Gallery di Ottawa), nel 1648 vien dal Ridolfi indicato presso Giovanni e Giacomo van Uffel, cioè – come adesso sappiamo – presso Giovanni e Giacomo van Veerle dove, a riprova, lo copia, nel 1650, Hollar: ma nel 1651 è già trasmigrato a Londra, poiché è stato possibile appurare (Vergara, 1989) che, in quell’anno e nella capitale britannica, lo comperava David Teniers il Giovane per conto del Conte di Fuensaldaña. Di simili transazioni, però, negli atti pubblici nessuna traccia: silenziosamente, e rapidamente, l’incredibile patrimonio d’opere veniva alienato e liquidato. Il 31 ottobre 1656, i fratelli van Veerle son convocati davanti al notaio J. Le Rousseau di Anversa per controversia con Ambrosius Brueghel su lastre di rame intagliate con la veduta di Madrid; il solo Giacomo, il 12 novembre 1666, è davanti al notaio P. Ghijsbert per questioni relative ad un violino di Cremona. E, poi, il sipario cala, definitivamente.
Ovviamente, accanto ai quesiti ai quali abbiam tentato di dare una risposta possibile, e ragionevole, altri, non meno seri, e ineludibili, si pongono: cui, viceversa, al momento attuale, ogni soluzione, ancorché largamente ipotetica, è negata. Attraverso quali mediazioni – per esempio -, a quali raggiri ricorrendo, potremmo persin soggiungere, gli spregiudicati fratelli van Veerle, in tempi assai brevi, poterono impadronirsi di tanti capolavori, nel cui novero, per giunta, capita di imbattersi in cose appartenenti a eredità familiari severamente vincolate?
Si pensi solo ai dipinti di Giorgione (o a lui attribuiti) che Ridolfi segnala in possesso di Giovanni e Giacomo van Voert, smentito da Wenceslaw Hollar che ne copia tre, nel 1650, in casa dei van Veerle: e si tratta, oltre che del Davide e del supposto Ritratto di un Fugger, del “putto con certi capelli crespi a uso di velli” che il Vasari aveva ammirato, durante il soggiorno veneziano del 1566, nel palazzo del cardinal Giovanni Grimani, a Santa Maria Formosa; e che, dopo l’incetta fattane dai van Veerle, ritroveremo, nel 1682, in mano del gioielliere portoghese Diego Duarte ad Amsterdam (si conserva oggi nella National Gallery of Scotland di Edimburgo).
Orbene, e alfine. Tutti e tre i quadri erano appartenuti al cardinal Domenico Grimani e, non solo appaiono nell’inventario redatto all’indomani (1528) della morte del prelato, ma il suo testamento ne aveva vietata l’alienazione. Con simili chiari di luna, par evidente che, quali che possano essere state le modalità d’acquisizione da parte dei van Veerle, si trattava di merce che scottava.
Con un’ultima domanda, che, veramente, include tutte le altre: quale il ruolo del buon Carlo Ridolfi in tanto affaire?