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Il rebus del cognome dipinto. Così Moroni rappresentò il cognome bergamasco Suardo



“Certo che, se oscura è la vita, luminosa è invece la sua arte. E questa arte il Moroni trasfuse ed eternò nelle sue magnifiche opere che sono ora, specialmente quelle firmate e datate, come punti luminosi che brillano nell’oscurità della notte e che irradiano maggior o minor luce sulle vicende dell’artista a seconda delle notizie storiche che si sono potute raccogliere intorno alle sue opere”.

Così scriveva, a proposito di Giovan Battista Moroni, Davide Cugini, evidenziando in primo luogo come, nonostante le recenti scoperte documentarie, molti aspetti della vita dell’artista, a cominciare dal luogo e dalla data di nascita, restino ignoti. Diverse carte dimostrano che la sua formazione si svolse a Brescia, nella bottega del Moretto; egli fu principalmente ritrattista, e ricevette commissioni soprattutto dalla nobiltà di ispirazione spagnoleggiante e neo-feudale, tra cui si annoverano personaggi di spicco nel panorama politico come i nipoti del vescovo di Trento, Ludovico e Gian Federico Madruzzo, e il duca di Albuquerque, futuro governatore di Milano. Nei ritratti, particolarmente intensi ed attenti alla verità effettiva della fisionomia, per indicare il nome dell’effigiato egli utilizzò metodi diversi, non ultima l’allegoria del nome.
Nel ritratto del cavaliere Secco Suardo, ambasciatore a Venezia dal 1545, il nobiluomo indica palesemente un elegante braciere, posto su una colonna. L’immagine-rebus è senza dubbio quella di “Su-ardo”, che viene rafforzata semanticamente dall’iscrizione, configurata come un’impresa araldica in caratteri latini: “Et quid volo / nisi ut ardeat?”. Il tema del fuoco (e del verbo ardere) riferisce l’impresa a un versetto evangelico (Luca, XII, 49) riguardante la missione di Cristo in terra: “Ignem vidi mittere in terram; et quid volo nisi ut accendatur” (Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!). Infine, come ulteriore strumento di rafforzamento degli indicatori di identità del personaggio, l’artista apre nel dipinto un’ampia finestra dalla quale si scorge una veduta del castello di Lurano, dimora della famiglia. Dove non esisteva la possibilità di utilizzare elementi allegorici nell’ambito della configurazione del nome o del cognome, Moroni si affidava alle imprese o motti araldici. Un’iscrizione appare infatti nel ritratto del duca di Albuquerque, datato 1560, in cui l’hidalgo, rappresentato a due terzi di figura, con la spada al fianco, poggia su un basamento marmoreo che reca incisa la scritta: “Aqui esto sin temor / y dela muerte / no he pavor”, una frase in spagnolo che significa: “Io sto qui senza timore e della morte non ho paura”, in riferimento all’impresa di famiglia.
Il terzo esempio rappresenta invece una scelta realistica – priva di elementi araldico-celebrativi – nell’indicazione dell’identità del personaggio. Nel dipinto che risale alla fine degli anni ’50 e che effigia il canonico Ludovico Terzi, nome e posizione sociale del soggetto sono semplicemente indicati dalla facciata di chiusura di una lettera che reca l’indirizzo: “Al Molto R.do M. Luc.co di Terzi / Can.co di Bgmo Dig.o et Proth.o / ap.co sig.r mio osser.mo / Bgomo”. Caratteristica peculiare di Moroni, che lo pone decisamente in antitesi – ad esempio -con Tiziano, è la capacità di far emergere dai suoi dipinti i segni di una moralità intrinseca: ciò che più gli interessa è imprimere nella memoria di chi osserva la vita e le gesta dei soggetti rappresentati.
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[PDF] Il rebus del cognome dipinto

STILE ARTE 2007