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Gualtiero Marchesi, Mirò, il riso del rubino


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Quel che io cerco è un movimento immobile” (Juan Miró)

di Gualtiero Marchesi

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Un sole? Un rubino? Un volto? In “Peinture”, dipinto del 1953, Miró ci fulmina con una delle sue trovate formidabili, fatte di segni elementari, caratteri di un alfabeto poetico e inquietante, svincolato da codificazioni ideologiche in nome di un’assoluta libertà d’invenzione. In un’altra opera, “L’Hirondelle éblouie par l’éclat de la prunelle rouge”, l’enigma si scioglie, ed il volto si rivela lungo i tratti di una bocca gioconda, di occhioni strampalati.

Ho forse paura dell’occhio? No, per niente. Non ho nessuna diffidenza nei suoi confronti. Si tratta semmai di una componente mitologica. Per me, l’occhio ha a che fare con la mitologia” (Juan Miró)



Il maestro catalano sapeva divertirsi. Si era reso conto, come ha osservato Marcelin Pleynet, che il marchio distintivo dell’arte moderna è nel suo rappresentare – oltre ogni illusione – il gioco “folle e serio” della vita. Aveva scoperto come non fosse impossibile fregiare il “monumento della Storia” di un gesto birichino, di un monellesco ammiccamento, perfino – per dirla con Tristan Tzara – “mostrando la lingua”.

Il surrealismo mi ha guidato nel cuore della poesia, nel cuore della gioia” (Juan Miró)

Ho deciso di interpretare Miró rispettandone la visione gaudiosa e fiabescamente evocativa. L’alone nero che nel quadro contorna il sole-rubino-volto diventa, sic et simpliciter, il fondo del piatto. Lui – il sole-rubino-volto – è un risotto al sugo di barbabietola, stemperato in tondo sulla superficie, in piena analogia cromatica. Finito? Sì, anzi no. Ecco, per magia, apparire un filo bianco. E’ un filo di salsa alla fonduta, che corre capricciosamente sulla campitura cremisi. Corre, s’attorce, disegna un bizzarro ghirigoro.

Da un filo può sprigionarsi un mondo. Arrivo a un mondo partendo da una cosa che si presume morta. E siccome ci metto un titolo diventa ancora più viva” (Juan Miró)

. Il filo candido s’interrompe. Poi, come per un improvviso balzo sincopato, si materializza più oltre, in un punto stavolta sì davvero conclusivo. Dall’inconscio riaffiora la traccia di una fisionomia fantastica, ideogramma di un linguaggio rigorosamente individuale.

I miei personaggi, così semplificati, appaiono più umani e più vivi che se fossero stati presentati in tutti i particolari: in quel caso mancherebbe loro quella vita immaginaria che ingrandisce ogni cosa” (Juan Miró)

E’ la lezione di Miró. Che non ammette alfabeti convenzionali. Che canta allegramente il fulgore creativo dell’arte. Ha dichiarato una volta il grande pittore:

Un quadro dev’essere come una scintilla. Deve abbagliare, come la bellezza di una donna o di una poesia. Più del quadro in sé, conta quel che il quadro diffonde intorno a sé. Se il quadro viene distrutto non importa. L’arte può morire, ma quel che conta è che abbia sparso seme sulla terra”.