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Quella mano accanto all’orecchio di Orsola importa nel sogno il suono del futuro martirio


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di Marcello Riccioni

Un suono, una precognizione sonora che giunge dal futuro. Una mano appoggiata a mo’ di conchiglia all’orecchio. Vittore Carpaccio risolse così la necessità di indicare un dato sensoriale flebile ma perentorio nel Sogno di Orsola, realizzato nell’ambito del ciclo di teleri per l’omonima scuola a Venezia. Una ricca scena iconograficamente decifrabile in ogni minimo dettaglio, un luogo in cui il primo presentimento è quello di una pace assoluta dietro il dramma del sogno, celato, del martirio della futura santa. Sogno premonitore o sogno reale? Rare le scene a Venezia in cui venivano raffigurati i sogni, forse anche per evitare, scadendo in quegli effetti fumettistici che sarebbero emersi nei secoli successivi con gli ex‑voto, la realizzazione di una scena duplice, nella quale il materiale onirico o metafisico fosse magari circonfuso dallo spazio di una nube.




Raffinatissima è invece la soluzione di Vittore, che trasforma l’intera stanza in un’autentica scatola del sogno. A partire dalla “leggenda aurea” di Orsola ‑ raccolta dall’arcivescovo di Ginevra, Jacopo da Varagine, nel XIII secolo ‑, Carpaccio affronta registicamente le sequenze: al centro di otto gigantesche scene raccontate in successione cronologica, ecco il “diaframma” della vicenda inerente la visione (sogno). E’ attraverso quel minuscolo iato ‑ che sta tra il silenzio e il fruscio ‑ che passa lentamente tutta la storia, come nella strozzatura di una clessidra.

Il mito di sant’Orsola aveva preso piede a Venezia sin dal 1300 anche perché, in proiezione, incarnava il carattere casto, puro, ma al contempo forte e pronto al sacrificio del popolo della Serenissima Repubblica.

Vittore Carpaccio, Il sogno di sant’Orsola
Vittore Carpaccio, Il sogno di sant’Orsola

Orsola, pia figlia del re di Bretagna, venne infatti chiesta in matrimonio da Etereo (o Ereo), figlio del pagano monarca inglese. Quindi fu raggiunto il patto in base al quale, entro tre anni, in cambio della mano della giovane, il principe si sarebbe dovuto convertire al cristianesimo. Passato questo tempo, la principessa partì con undicimila compagne che, risalendo il fiume Wall sino a Colonia, furono invitate da un angelo a recarsi a Roma, dal papa. Ritornate a Colonia, nel frattempo conquistata dagli Unni, vennero trucidate insieme ad Orsola, che non aveva acconsentito al matrimonio con il capo dell’esercito barbaro.




Il flebile suono del futuro ‑ che scivola su quella mano in parte all’orecchio ‑ nel silenzio all’apparenza immoto della stanza, richiama l’attenzione dello spettatore. I teleri che coprivano le pareti della sala dell’albergo della scuola (oggi conservate in una ricostruzione parziale alle Gallerie dell’Accademia), precipitavano in direzione della tela del sogno, che inequivocabilmente funge da intenso elemento di collegamento tra la storia reale dei viaggi di Orsola e la seconda sezione dedicata al dramma, al martirio e al funerale. Il telaio pressoché quadrato dell’opera, forse così concepito perché già “scatola del sogno”, è frutto di un’attenta geometria che scandisce tutti gli spazi della scena.
Elementi attinenti al sogno ‑ come fenomeno psichico e non come elemento mitico ‑ compaiono in modo evidente: anzitutto la collocazione temporale del “fotogramma”, calato tra l’inizio del giorno e il finire della notte, attimo rappresentato dalla luce che penetra dalla finestra a bifora lombarda sulla parete di fondo della stanza. Una prima riflessione induce a pensare che Carpaccio abbia valutato il fatto che i sogni, che si sviluppano nella fase rem, possono essere ricordati vivamente in caso di risveglio, specie a ridosso del mattino.

 
Quindi, ecco gli altri elementi di una scatola che sembra contenere sia la parte conscia di Orsola, quindi il timore del martirio e del sacrificio ‑ bene evidenziato dalla corona posta ai piedi del letto, a significare la morte prima dell’incoronazione ‑, sia quella inconscia determinata dall’unione di elementi che si collocano tra il desiderio e la realtà raggiungibile. Ecco, a questo proposito, il vuoto della sedia‑trono sulla destra del letto, aspirazione di regina unita alla consapevolezza (in sogno) dell’impossibilità di raggiungere tale desiderio. La “stanza del sogno” non è chiusa: tutte le aperture volgono o a stanze attigue o all’esterno, consapevolezza che nella fase onirica vi è l’incontro di mondi e visioni difformi. Perfino gli armadi, schiusi, alimentano il senso secondo cui esiste nella visione mistica (come si credeva allora) l’unione tra il ricordo, il desiderio e la realtà.




Il corpo perfettamente supino di Orsola preannuncia il funerale, sicché il letto diviene talamo di morte. Unico risveglio dalla morte è il gesto della mano posta all’orecchio, non tanto per sorreggere la muta testa, quanto per appropriarsi dei rumori che divengono, a loro volta, materia reale da proiettare sul tracciato onirico. Soli sensi vigili, il tatto e l’udito agiscono infatti da trasmettitori di impulsi che spesso si traducono in immagini.
Orsola sembra ascoltare il segno tacito dell’angelo annunciante il martirio attraverso la palma che tiene nella mano destra. Ecco l’armadio a muro, quello dei ricordi, e la bifora scorciata visibile perché filtro naturale della luce del primo giorno che cade sugli oggetti sopra il piccolo “tavolo memoria” della giovane. Un libro aperto, aspetto di conoscenza ancora non perfettamente acquisita, un altro chiuso, allegoria di sapienza assimilata. Al centro dei due volumi la clessidra, la cui sabbia sta ancora scendendo, a significazione del tempo limitato dell’immagine onirica e del futuro, seppur breve, che si dischiude ad Orsola.


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